venerdì 25 marzo 2016

LAGHI DI AZOTO LIQUIDO NEL PASSATO PLUTONIANO

Ottenuta dalla combinazione di riprese effettuate dagli strumenti LORRI (Long Range Reconnaissance Imager) e RALPH - MVIC (Multispectral Visible Imaging Camera) installati a bordo della sonda New Horizons, questa immagine ottenuta durante il massimo avvicinamento a Plutone, lo scorso 14 luglio 2015, mostra chiaramente un lago lungo circa una trentina di chilometri situato nell'area montuosa dello Sputnik Planum, formato non da acqua ma da azoto ghiacciato:


E' ormai noto agli astronomi che l’asse di Plutone oscilla su se stesso, in maniera alquanto pronunciata, in un periodo di circa 1,4 milioni di anni; tale fenomeno, oltre a comportare variazioni stagionali, va ad influire anche sulla temperatura alla superficie del sorprendente pianeta nano: circa 600.000 anni fa, infatti, Plutone avrebbe attraversato una fase leggermente più calda dell'attuale, durante la quale azoto e metano sarebbero sublimati a tal punto da "inspessire" l'atmosfera di Plutone, generando una pressione di circa 40mb.

Tale ispessimento temporaneo, con ogni probabilità, permise all’azoto di esistere al suo “punto triplo” (ad una temperatura di -210° C e ad una pressione di 0,12 atmosfere), ovvero nello stato liquido, gassoso e solido contemporaneamente, sia in superficie che nella bassa atmosfera. In conseguenza al seguente declino delle temperature dovuto al procedere sulla sua orbita, l'atmosfera plutoniana iniziò a "scendere" e i liquidi alla superficie congelarono. A prova di quanto appena descritto, nell'immagine oltre al lago sono visibili anche valli, probabilmente scolpite da immissari di azoto liquido esistiti in un lontano passato. Uno scenario non dissimile da quanto visto su Marte.

Mentre l'atmosfera plutoniana sublima e cade al suolo durante il suo anno orbitale, pari a 248 di quelli terrestri, si ritiene assai probabile che la densità media della stessa andrà calando nei prossimi 800.000 anni allorché Plutone entrerà in una sorta di "era glaciale" man mano che la sua temperatura scenderà ulteriormente di qualche grado.

mercoledì 23 marzo 2016

COR CAROLI E LE VARIABILI MAGNETICHE

Nelle nottate primaverili è visibile uno degli asterismi meno noti, il cosiddetto “diamante della Vergine”, delineato quattro stelle: Spica (α Vir), Denebola (δ Leo), Arcturus (α Boo) e Cor Caroli (α CVn). quest’ultima, passante proprio allo zenith, è la stella più più appariscente della costellazione dei Cani da Caccia (Canes Venatici). La denominazione, certamente originale, le fu attribuita nel 1725 dall’astronomo inglese Edmund Halley in onore del Re Carlo II d’Inghilterra, ispirato dallo scienziato di corte Charles Scarborough, che a suo dire vide tale stella splendere molto più vivacemente del normale alla vigilia del ritorno del Re a Londra, il 29 Maggio 1660. Infatti, su parecchie stampe d’epoca, la stella appare raffigurata marcare un cuore incoronato, posto a ridosso del collo del cane Chara.


Cor Caroli splende esattamente di magnitudine 2,9 ma in realtà non è la storia del suo nome ad attrarre l’attenzione su di essa quanto il fatto di essere una tra le doppie più belle visibili attraverso i piccoli strumenti! La principale, una stella bianca dal diametro tre volte quello solare, è affiancata ad una distanza di circa 19 secondi d’arco da una compagna di magnitudine 5,6, dello stesso colore ma dal diametro di poco più grande; si tratta di una compagna fisica, lontana dalla principale circa 800 Unità Astronomiche. Dal momento delle prime misure, ottenute da Otto Wilhelm Struve nel 1830, è stata osservata solo una modestissima variazione nella separazione; a questo proposito Camille Flammarion scrisse “…questi due astri sono tuttavia associati, poiché volano insieme attraverso l’immensità dello spazio con velocità prodigiosa…”; ciò ha portato a concludere che il periodo orbitale della coppia deve essere notevolmente lungo. La coppia di stelle è davvero incantevole alla visione con qualsiasi telescopio, ed alcuni osservatori sembrano avvertire dei leggeri contrasti nel colore delle due stelle, che vengono spesso definite bianco-azzurra, la principale, e giallognola, la secondaria.

La coppia dista 110 anni-luce da noi e la luminosità intrinseca dei due astri, il principale dei quali è una subgigante bianca mentre la secondaria è di sequenza principale, è equivalente rispettivamente a 75 e 7 volte quella del Sole; da studi eseguiti sul loro moto e sulla loro velocità nello spazio, sembra che in realtà le due stelle siano dei membri fuggitivi dell’ammasso stellare delle Iadi, nel Toro.


La stella principale della coppia, α CVn 2, è anche un’interessante variabile, prototipo della classe delle cosiddette variabili a spettro magnetico, complesse stelle caratterizzate da intensissimi campi magnetici, dal migliaio agli oltre trentamila gauss; la polarità dei campi varia contemporaneamente allo stesso periodo rotazione della stella, solitamente lungo qualche giorno. Tra le più note appartenenti a questa classe sono Alkaid (Epsilon UMa), 56 Ari, Chi Ser, Iota Cas e Nekkar (Beta CrB).

Queste sono tutte stelle di tipo spettrale A, appena più luminose delle medesime appartenenti alla sequenza principale, appartenenti ad associazioni stellari; oltre a mostrare una variazione di luminosità nel visuale, generalmente modesta, le stelle magnetiche presentano una marcata variabilità nell’intensità e nella forma di alcune righe spettrali di metalli - presenti in abbondanza assieme alle cosiddette “terre rare”, fatto già di per se anomalo nelle stelle di tipo spettrale A – variazione che ha il medesimo periodo di quella luminosa, generalmente compreso tra poche ore ed oltre 300 giorni. Strano è anche il fatto che l’ampiezza della variazione luminosa è diversa a seconda della banda spettrale considerata. La presenza del campo magnetico su queste stelle è stata scoperta in quanto le righe spettrali appaiono tanto più allargate - il cosiddetto effetto  “Zeeman” - quanto più intenso è il campo stesso, che contribuisce anche a rendere polarizzata la luce della stella.

La variazione dell’intensità delle righe metalliche nello spettro di Cor Caroli venne scoperta nel 1906 e, successivamente, nel 1914 venne anche osservata una modesta ma pur presente variazione di 0,05 magnitudini nella luminosità visuale. Oltre a questo, fu notato anche che il colore della stella varia leggermente, dal bianco quando è al minimo di luminosità all’azzurrino quando è invece al massimo, e che l’intensità del campo magnetico varia, in un intervallo tra i +5.000 e i –4.000 gauss, periodicamente e contemporaneamente ai cambiamenti nelle linee spettrali che, come detto, a loro volta variano in sintonia con la variazione nella luminosità della stella.



Oggigiorno si conoscono ancora pochi esemplari di stelle magnetiche, poco più di un centinaio, perché possa essere stilato un modello finale del complesso meccanismo di variabilità di queste stelle. Innanzitutto, si ritiene che l’anomala – altissima – presenza di elementi pesanti, nonché rari, sia dovuta al fatto che il forte campo magnetico concentrerebbe gli ioni, presenti nell’atmosfera della stella, lungo delle “correnti” capaci di generare temperature altissime, che favorirebbero appunto la formazione di reazioni nucleari atte a generare elementi pesanti.

La diversa concentrazione di questi elementi pesanti sulla superficie della stella spiegherebbe le variazioni nelle righe che avvengono con lo stesso periodo di rotazione; allo stesso modo, la variazione di diversa ampiezza che la stella mostra nei colori spettrali sarebbe ben spiegata interpretando che la diversa concentrazione di elementi sulla superficie della stella comporterebbe anche “aree di diversa luminosità”, aventi sempre lo stesso periodo della rotazione della stella.

Lo stesso campo magnetico, secondo alcune teorie, deriverebbe dal campo magnetico galattico inizialmente presente nella nebulosa che ha dato vita alla stella, e successivamente si sarebbe intensificato, contraendosi, proprio quando parte di questa nube iniziava a collassare per dare vita alla protostella, o più semplicemente sarebbe dovuto alla rotazione della stella, in cui intense correnti elettriche genererebbero l’intenso campo magnetico, proprio come in una dinamo.

lunedì 21 marzo 2016

STELLE ULTRA-MASSICCE SVELATE DA HUBBLE

Combinando immagini riprese con la Wide Field Camera 3 (WFC3) e con quelle UV riprese tramite lo Space Telescope Imaging Spectrograph, strumenti entrambi del telescopio spaziale Hubble, è stato possibile effettuare osservazioni dalla risoluzione senza precedenti nella banda UV sull’ammasso stellare R136, che ha portato alla scoperta ben nove stelle ognuna con massa oltre 100 volte quella del Sole: un vero record, in quanto in nessun altro oggetto di questo tipo è presente un così cospicuo numero di stelle di tale massa!

Nell'immagine qui di seguito, a sx è visibile la parte centrale di R136 ammasso stellare, esattamente come esso appare osservato nell'UV; grazie all'elevata risoluzione di HST proprio nell'ultravioletto, le singole stelle sono pienamente risolte e quindi possono essere studiate. A dx, invece, l'area all'interno del rettangolo bianco con gli spettri UV (disposti verticalmente) raccolti dallo strumento Imaging Spectrograph (STI) dell'HST, che hanno permesso di determinare le proprietà di queste stelle appartenenti ad R136:


E’ noto che la presenza di stelle massicce è una caratteristica quasi esclusiva di ammassi stellari giovanissimi, proprio perché il ciclo vitale di queste stelle non supera i 2-3 milioni di anni; sono d’altronde pochissime le stelle di questo tipo note nella Via Lattea, davvero una manciata.

R136 è un ammasso aperto lontano 170 mila anni-luce; non è situato nella Via Lattea ma Grande Nube di Magellano, precisamente nella nebulosa Tarantola. R136 venne inizialmente inserito in un catalogo compilato al Radcliffe Observatory, Sud Africa, che listava le stelle luminose presenti nelle Nubi di Magellano; a tutti gli effetti, all’epoca si riteneva che tale oggetto fosse una singola stella ma successivamente i telescopi dell’ESO risolsero l’ammasso in tre componenti distinte: a, b e c. In seguito, R136a venne risolta in un gruppo di otto stelle (A1-A8) sempre tramite i telescopi dell’ESO.

Sono proprio queste caldissime e luminosissime stelle, assieme a quelle facenti parti di un altro ammasso stellare li situato e noto come Hodge 301, a far risplendere per incandescenza il vasto apparato nebulare. Una di queste stelle, R136a1, detiene il record per essere la più massiccia conosciuta: il valore della sua massa si aggira attorno a 250 volte quella del Sole! Ad ogni modo, le stelle appartenenti ad R136 non sono massicce ma anche estremamente luminose, tanto che le nove da poco individuate hanno luminosità intrinseche - badate bene – pari a 30 milioni di volte quella del nostro luminare diurno! Valori davvero vertiginosi che sfuggono alla mente umana!

R136a1, così come le altre massicce individuate nell’ammasso stellare, sono stelle di Wolf-Rayet, caratterizzate da una temperature superficiali di oltre 50.000 K e che come altre stelle prossime al cosiddetto “limite di Eddington” espellono tramite intensissimi venti stellari una parte considerevole della loro massa, fenomeno in corso dalla loro formazione e che, nel caso di R136a1, ha portato questo colosso a perdere almeno una massa terrestre al mese, perdendo almeno 50 masse solari nel corso degli ultimi milioni di anni!

L'ammasso R136 nella "Nebulosa Tarantola"

Alcuni indizi portavano a condurre che tali mostri cosmici potessero nascere dalla fusione di stelle massicce appartenenti a sistemi binari stretti ma, da ciò che sappiamo circa la frequenza di fusioni massicce, tale scenario non può tener conto di tutte le stelle massicce presenti in R136: sembrerebbe, quindi, che tali stelle possono avere origine da normali processi di formazione stellare laddove è presente un bel po di materiale nebulare in condizioni di densità davvero elevata.

Le “firma” UV da parte di stelle dalla massa ancor più grande di quelle presenti in R136 sono state anche rivelate in altri ammassi di stelle nelle galassie nane NGC 3125 e NGC 5253; tuttavia, questi sono troppo distanti affinché il potere risolutivo di Hubble possa far emergere le singole stelle esattamente come accaduto per l’ammasso presente nella Grande Nube di Magellano.

venerdì 4 marzo 2016

VIAGGIO TRA LE COSTELLAZIONI: M44

M44 è senz’altro l’oggetto più famoso della costellazione del Cancro, situato all’interno del quadrilatero delineato dalle stelle γ, η, δ e θ Cnc ed attraversato dall’eclittica; questo ammasso stellare del tipo “aperto” è noto sin dall'antichità per essere uno degli oggetti non stellari più facilmente visibili ad occhio nudo. Galileo fu il primo che, grazie al suo semplice e primitivo telescopio, riuscì a capire che quella vaga nebulosità visibile ad occhio nudo attorno ad ε Cnc era in realtà composta da centinaia di stelle, proprio come le celebri Pleiadi. E’ sufficiente il più modesto dei binocoli per ripetere l’osservazione di Galileo; con un 10x50 si possono contare addirittura cinquanta componenti, che raddoppiano in un 20x80. Fu comunque Charles Messier, nel 1769, ad aggiungerlo nel suo famoso catalogo con il numero 44. Come già detto, fu Plinio il Vecchio ad attribuirgli il termine latino praesepe ovvero “mangiatoia”, come già fecero ancor prima Ipparco ed Arato. Gli antichi astronomi cinesi videro nella sua evanescenza il luogo dove finivano le anime dei morti; al contrario, ma ancor più anticamente, nella cultura caldea M44 era noto come la “porta dell'uomo”, passaggio dal quale uscivano le anime prima di entrare in un corpo che stava per nascere.



Conosciuto nei paesi anglosassoni come "l'alveare", questo largo e stupendo ammasso è uno tra i più vicini al Sole, distando da esso (e da noi, quindi) “solo” 590 anni-luce; tenendo conto di questo dato e dell’estensione apparente sulla volta celeste, pari a 3 volte il disco lunare, ne consegue che il suo reale diametro è di 23 anni-luce anche se la sua influenza gravitazionale si estende per quasi 40 anni-luce. Apparentemente, il numero di stelle presenti nell’area di M44 sfiora le 500 unità, molte delle quali di magnitudine sesta e settima grandezza, perfettamente visibili con un binocolo anche dalle aree urbane; teoricamente, un sotto un cielo prettamente nitido e oscuro si dovrebbero poter discernere 2 o 3 delle componenti più luminose; tuttavia, si tratta di un impresa difficile, dal momento in cui lo sfondo su cui si staglierebbero resterebbe sempre nebuloso e indefinito. Sono comunque circa 200 le reali stelle che risultano fisicamente associate tra loro (con magnitudini comprese tra 6,3 e 17) mentre le restanti vi si proiettano sopra solo per effetto prospettico.


La componente più luminosa di M44 è ε Cncuna stella bianca di sequenza principale di classe spettrale A5m, lontana 548 anni-luce e dalla magnitudine assoluta pari a 0,16. Ad ogni modo, la gran parte delle componenti di M44 è composta da astri bianchi di sequenza principale ma anche da numerose stelle evolute quali giganti arancioni e un centinaio di variabili, molte delle quali del tipo “δ Sct”, stelle bianche che hanno appena lasciato la fase stabile di sequenza principale per evolversi verso la fase di gigante. M44 è inoltre uno dei pochissimi ammassi aperti a possedere un numero considerevole di nane bianche; le prime di queste furono individuate nel corso degli anni sessanta del secolo scorso e ad oggi ne sono note una dozzina. Accurate analisi spettroscopiche di queste nane bianche hanno evidenziato alcune di esse hanno particolari caratteristiche; WD0836+197, ad esempio, potrebbe essere stata generata dal collasso di una cosiddetta “vagabonda blu”, una stella formatasi dalla fusione di due stelle in precedenza distinte mentre WD0837+185 potrebbe essere un sistema doppio derivato dal collasso di due stelle in orbita fra loro. Come altri oggetti di questo tipo (e non solo…), anche in M44 è presente la cosiddetta “segregazione di massa”, fenomeno per il quale le stelle più luminose e massicce tendono a concentrarsi nelle aree centrali dell'ammasso mentre quelle più piccole e meno luminose si distribuiscono nell'alone circostante.

Foto: Bob Franke


Recenti indagini effettuate sul moto delle stelle più brillanti indicano che le stelle di M44 si spostano ad una velocità compresa tra i 27 e i 35 chilometri al secondo verso Procione, coprendo quindi un percorso pari al diametro della Luna in quasi 50.000 anni! Tra l’altro, il moto proprio è uguale e parallelo a quello delle Iadi nella costellazione del Toro, tanto da far supporre che i due gruppi stellari abbiano una comune origine ma questa tesi è stata tuttavia smentita in temi recenti; stante a 625 milioni di anni l’età delle Iadi, le stelle del Presepe possiedono un'età leggermente inferiore, stimata attorno ai 578±12 milioni di anni; ciò comporterebbe che la formazione del Presepe sia avvenuta circa 45-50 milioni di anni dopo quella delle Iadi.

Pur essendo il telescopio lo strumento non adatto ad apprezzare l'ammasso nella sua interezza, esso è comunque utile qualora si desideri studiare alcune delle numerose stelle multiple presenti nell’ammasso (come Burnham 584 o Struve 1254) oppure oggetti ancora più particolari come TX Cnc, una variabile ad eclisse la cui luminosità oscilla in sole sei ore tra le magnitudini 10,0 e 10,4 e facile da seguire con una camera CCD. Telescopi da lunghezze focali elevate consentono di riprendere le numerose e deboli galassie proiettate sullo sfondo dell’ammasso: NGC2624-5, 2637, 2643-7, IC2388-90 e altre del catalogo “MCG”, le più brillanti delle quali appena di quattordicesima magnitudine! Curiosa è anche la presenza, alla periferia dell’ammasso, di HB0836+195, un quasar di magnitudine 17, sempre puntiforme anche nelle migliori immagini.