giovedì 30 aprile 2015

LA NEBULOSE "DI GUM" E "DELLE VELE"

Negli ultimi anni, l’evoluzione della tecnologia di ripresa ed elaborazione delle immagini riprese con i grandi telescopi, solitamente effettuate a più frequenze nello spettro elettromagnetico oltre a quella prettamente visuale, sta fornendo risultati a dir poco sbalorditivi. In questo ambito, le galassie a spirale, soprattutto quelle vicine, iniziano a rivelare più che distintamente i milioni o meglio, i miliardi, di stelle che popolano le loro bellissime braccia a spirale, laddove fanno anche presenza numerose chiazze - le cosiddette regioni HII - fanno bella presenza grazie al loro colore tipicamente purpureo, importanti indicatori della presenza delle stesse braccia a spirale e che assumono le forme più diverse.



Si tratta di vaste aree gassose, principalmente composte da idrogeno, la maggior parte delle quali risplendono per incandescenza laddove vi è la presenza di stelle estremamente calde - per intenderci, quelle appartenenti ai tipi spettrali O e B - le cui immani radiazioni ultraviolette rilasciate nello spazio vanno a spogliare gli atomi di idrogeno del gas dei loro elettroni; questo gas, che risulta quindi ionizzato, brilla a diverse frequenze ma in particolare quella a 6563 Angstrom, caratteristica per il suo colore rossastro, è proprio quella che “marchia” cromaticamente queste vaste nebulose diffuse. Sempre nelle braccia a spirale, ma anche nelle più piccole galassie dalla forma tipicamente irregolare, si scorgono poi altre nebulose caratteristiche per la loro forma a “bolla”: si tratta dei cosiddetti “resti giovani di supernova”, ovvero ciò che resta di stelle vissute in un lontano passato e che hanno concluso la loro esistenza in maniera catastrofica: immani deflagrazioni che hanno rilasciato nel Cosmo queste bolle di gas in espansione, intrise, tra l’altro, di quegli elementi “pesanti” creati proprio dalle supernovae.

Il complesso nebulare comprendente la nebulosa di Gum ripreso da Axel Mellinger in luce H-Alpha

Nella parte della Via Lattea ad oggi meglio studiata e a noi più vicina - il cosiddetto “braccio di Orione”, nel quale è immerso anche il Sistema Solare - è presente una di queste aree nebulari che sembra quasi allungare le sue propaggini più esterne proprio nella nostra direzione. Si tratta di un oggetto vicino, con il centro posto a circa 1470 anni-luce da noi; ma la cosa più sorprendente e allo stesso tempo inverosimile è che questa nebulosa, nonostante le sue notevoli dimensioni che ne fanno una delle più grandi strutture di questo tipo che popolano il disco galattico, non solo risulta del tutto invisibile ad occhio nudo ma, fino a poco tempo fa, se ne ignorava del tutto l’esistenza, giacché venne individuata solo negli anni ’50 del secolo scorso da un giovane astronomo australiano, Colin Gum. Al fine di completare la sua tesi di dottorato, uno studio effettuato proprio sulla distribuzione del gas ionizzato nella riga H-Alfa dell’idrogeno ionizzato (H II) nella caratteristica "luce rossa" a 6563 Angstrom delle nebulose diffuse, Gum riprese la Via Lattea australe con una camera Schmidt da 100 mm di diametro all'osservatorio di Mount Stromlo.

La mappatura della nostra galassia viene fatta proprio stimando la disposizione e le distanze di tali regioni HII, che hanno quindi una priorità chiave nello studio della struttura e dell’evoluzione della Via Lattea; il modo migliore per l'individuazione di tali nebulose è quello di utilizzare un filtro speciale che scherma tutta la luce del campo ripreso tranne quella emessa nella riga H-Alfa dell’idrogeno: le immagini così riprese vengono quindi confrontate con altre del medesimo campo ma riprese in luce visibile e laddove si rendono visibili differenze, queste sono indotte da forti sorgenti che emettono proprio in quella caratteristica riga ovvero proprio le nebulose diffuse.

Con i risultati così ottenuti tramite queste foto a largo campo, nel 1955 Gum pubblicò l'omonimo catalogo che contava ben 84 nebulose e complessi nebulari, molte delle quali prima sconosciute e da lui stesso scoperte. Tra questi nuovi oggetti, ve ne era uno - denominata Gum 12, ovvero dodicesimo della lista - che si presentava davvero al di fuori della norma: una enorme, gigantesca nebulosa estesa per oltre 30° che si stagliava sulle costellazioni delle Vele e della Poppa, coprendole nella loro interezza: mai prima di allora una simile struttura di tali proporzioni era stata osservata nella nostra galassia! Per avere un’idea delle sue dimensioni che tanto scalpore fecero, se i nostri occhi fossero capaci di isolare la rossa radiazione che la nebulosa emette, essa apparirebbe estesa su oltre metà del campo della nostra vista!


Le dimensioni e l’aspetto di questa vasta nebulosa suggerirono che potesse essere un resto di una supernova, esplosa a breve distanza dal Sistema Solare ma in un epoca assai remota, sicuramente diversi millenni addietro; tale ipotesi, formulata dallo stesso Gum, venne presto suffragata dal fatto che la cosiddetta nebulosa delle Vele (Gum 16), all’epoca già nota e dallo stesso astronomo inclusa nel suo catalogo, si proiettava nei pressi del cuore della nebulosa da lui individuata, pur in una posizione lievemente eccentrica rispetto al suo reale centro geometrico: e proprio la nebulosa delle Vele era da tempo sospettata essere essa stessa un antico residuo di supernova!

La lentezza con cui si muovevano nel Cosmo i suoi filamenti gassosi e la loro diluizione rendevano però pressoché impossibile sia il calcolo dell’età che identificarne l’eventuale residuo centrale. La scoperta di Gum indusse comunque ad intensificare gli sforzi e, in breve tempo, radioastronomi australiani riuscirono ad identificare a poca distanza dall'area centrale di tale nebulosa una stella di neutroni, la pulsar PSR0833-45, dal periodo di rotazione pari a 89 millisecondi (!), valore record per l'epoca in quanto relativamente lungo per una stella di quel tipo: da questo, ad ogni modo, fu possibile risalire all’epoca della nascita di tale pulsar e, di conseguenza, all’esplosione della supernova che diede vita ad essa e alla nebulosa stessa: evento che venne posto tra 11.000 e 12.000 anni fa. In epoca priva di documenti scritti, quella preistorica, per un evento di simile portata che venne senza dubbio osservato dall'uomo dell'epoca: tenendo infatti conto della distanza, valutata in circa 800 anni-luce, la supernova delle Vele dovette raggiungere una magnitudine apparente pari a -9, rendendosi perfettamente visibile anche in pieno giorno e splendendo almeno un centinaio di volte più delle successive (e purtroppo assai rare!) supernovae apparse in epoca storica. Nel 1977, un altro gruppo di astronomi australiani, utilizzando il telescopio Anglo-Australiano da 3,9 metri di diametro cui venne affiancato un otturatore estremamente rapido, riuscì a dopo una lunga ricerca a rilevare una debolissima stella di ventiquattresima magnitudine che emetteva impulsi luminosi con lo stesso periodo osservato nelle onde radio: per la prima volta, seconda in assoluto dopo quella osservata nella famosa "nebulosa del Granchio", anche la pulsar delle Vele si rese finalmente visibile nella sua controparte ottica!

L’aspetto sfilacciato e la tenue luminosità della nebulosa delle Vele sono sicuramente indice della sua antichità, concetto confermato anche ad altre lunghezze d’onda quali le onde radio, nelle quali tale nebulosa appare frammentata e disomogenea, ben diversa dall’aspetto grosso modo circolare e ben definito dei resti di supernovae più recenti sparsi nella Via Lattea e in altre galassie: nel caso del residuo delle Vele, infatti, il mezzo interstellare ad essa circostante ha avuto lungo tempo a disposizione per agire sull’involucro gassoso in espansione, rallentandolo fin quasi a fermarlo o, comunque, provocandone le deformazioni e le frammentazioni osservate laddove la distribuzione del mezzo interstellare stesso è disomogenea. Anche nella banda spettrale X, la nebulosa rivela un simile andamento: il massimo di emissione si ha infatti in corrispondenza della pulsar centrale, che appare come una sorgente molto intensa, situata quasi al centro della nebulosa, mentre altre zone di comunque dalla luminosità X notevole sono sparpagliate all'interno del resto di supernova.

Come già accennavamo prima, la distanza media della nebulosa di Gum (così come questo vasto complesso gassoso venne denominato per onorare la scomparsa del suo scopritore, morto prematuramente a soli 36 anni in un banale incidente di sci) è pari 1470 anni luce ma essa spinge le sue propaggini più vicine nella nostra direzione inglobando la stessa nebulosa delle Vele.

Osservandone la distribuzione in termini di profondità spaziale, la sua reale estensione coincide grossomodo con lo spazio compreso tra due stelle intrinsecamente estreme per mass e luminosità: Regor (γ2 Vel) e Naos (ζ Pup); proprio per questo motivo, venne ipotizzato che l'immensa nebulosa di Gum potesse essere in realtà un'antica sfera di Strömgren, una di quelle bolle di idrogeno ionizzato localizzate attorno a caldissime stelle di O o B esattamente come le due sopra citate: astri, cioè, la cui intensissima radiazione induce la luminescenza del gas, sospinto radialmente in direzione esterna ad esse sia dalla medesima radiazione che dagli intensi venti stellari da esse propaganti. Secondo altre ipotesi più recenti, la nebulosa di Gum sarebbe invece, così come quella delle Vele, un resto di supernova che però sarebbe esplosa molto tempo prima ma la cui luminescenza sarebbe ancora una volta attribuibile ancora una volta alle due massicce stelle azzurre sopra accennate.

Regor (γ2 Vel)

Naos (ζ Pup)

Esistono indizi che potrebbero fornire una prova definitiva sulla sua origine?
A tal fine, una assai probabile risposta arriva dal contesto galattico in cui essa è immersa; nei pressi della nube è infatti presente l’associazione Vela OB2. Si tratta di gruppi che possono contenere da poche unità fino a centinaia di stelle giovani, calde e massicce dei primissimi tipi spettrali (da cui il nome). A tale associazione appartiene proprio Regor - apparentemente non lontana al centro della vasta nebulosa - che è un complesso sistema costituito da almeno sei stelle le più importanti delle quali sono una Wolf-Rayet, la più vicina stella di questo tipo a noi, ed una supergigante O legate gravitazionalmente tra loro. Anche Naos è una supergigante di tipo O, ma ha la peculiarità di essere nata in un'altra zona, precisamente nell'ammasso stellare Trumpler 10; questo è stato possibile dedurlo retrocedendo di tempo e direzione il suo elevato moto proprio che la rende questa stella estrema una cosiddetta "fuggitiva": lontana circa 1090 anni-luce da noi, Naos è "ora" situata nella parte della nebulosa di Gum a noi rivolta.

Detto questo, mettendo in relazione l'origine della nebulosa con l'attuale posizione di Naos, una teoria che salta fuori da tale quadro descrive che la nebulosa di Gum sia stata creata dall'esplosione di una passata compagna di Naos; scomparendo di colpo, a seguito del catastrofico evento, il centro di gravità cui la sua orbita era legata, essa partì letteralmente “per la tangente” ad altissima velocità, quella ancora oggi osservata. Tra l'altro, è stato notato che i bordi dell’immensa nebulosa di Gum si espandono in modo differente fra di loro: la parte rivolta verso il Sole sembra infatti avvicinarsi più velocemente rispetto a quella che, al lato diametralmente opposto, se ne allontana, quest'ultima probabilmente ostacolata dalla presenza del cosiddetto “Vela molecular ridge”, un altro vasto complesso di nubi molecolari giganti situate oltre la nebulosa.

Come detto, gli eventi che generarono la nebulosa di Gum avrebbero avuto luogo molto molto prima di quelli della supernova che produsse la più vicina nebulosa delle Vele: da 1 a ben 6 milioni di anni fa! Gli strati gassosi espulsi in quello scoppio così temporalmente lontano continuano ad espandersi ancora oggi, pur a bassissima velocità, stimata sul migliaio o poche centinaia di chilometri al secondo. Ciò è comunque sufficiente a provocare una certa compressione del mezzo interstellare circostante e il susseguente riscaldamento del gas che va ad impattarci sopra, generando le emissioni X e UV osservate; nella regione delle onde d’urto vengono compresse anche le linee di forza del campo magnetico interstellare, la cui intensità viene enormemente aumentata; in questo contesto, gli elettroni presenti nel gas in espansione vengono accelerati dal campo magnetico, emettendo una certa radiazione - detta “di sincrotrone” - effettivamente osservata nelle onde radio.

Fino ad oggi, le ricerche radio condotte in quell'area celeste non sono riuscire a scovare la stella di neutroni che sarebbe dovuta rimanere come residuo di questa antica esplosione, la qual cosa porta a supporre che la stella esplosa come supernova che ha generato la nebulosa di Gum ha forse prodotto qualcosa di molto più esotico ma allo stesso invisibile e spaventoso: un buco nero. Forse il più vicino al Sistema Solare? Nessuno lo sa.

Osservando il cielo australe nella direzione delle costellazioni delle Vele e della Poppa, pur non vedendoli ad occhio nudo, siamo certi che il nostro sguardo punta verso aree che in lontanissime epoche passate hanno visto accendersi più volte stelle giunte alla fine della loro agonia i cui residui, oggi osservati, vanno addirittura a sovrapporsi, quasi abbracciandosi a ricordo di quegli eventi. Certo è che, che tutto l'enorme involucro gassoso della nebulosa di Gum, oggi in una avanzatissima fase evolutiva, è destinato a raffreddarsi progressivamente, diluendosi completamente nel mezzo interstellare circostante fino a scomparire per sempre nel giro di qualche milione di anni.

La Via Lattea australe e la nebulosa di Gum; notare le dimensioni comparate con la nota costellazione di Orione, visibile in alto a destra (foto: Juan Carlos Casado)

martedì 28 aprile 2015

I NOMI PROPRI DELLE STELLE: "CORVUS, CRV, IL CORVO"

Nelle serate primaverili, allorché il clima più mite consente più ore d’osservazione in un ambiente certamente meno rigido, il cielo appare veramente spoglio di astri luminosi, rendendosi davvero poco appariscente se paragonato agli splendori invernali ormai tramontati; solo l’azzurra Spica (α Vir), l’arancione Arcturus (α Boo) e le stelle appartenenti alle più settentrionali costellazioni del Leone e dell’Orsa Maggiore permettono all’osservatore di orientarsi più o meno facilmente nella ricerca delle centinaia di galassie che sono poi la principale attrattiva del cielo primaverile, unico periodo dell’anno la Via Lattea è situata quasi interamente sotto l’orizzonte. In questo contesto, quella del Corvo è l’unica costellazione che risalta nella parte più meridionale del cielo: le sue quattro stelle più luminose, oltre a qualche isolata e poco appariscente stella dell’Idra, richiamano l’attenzione verso questa zona così oscura in quanto scarsamente popolata da astri luminosi.


L’intera area comprendente l’Idra ed il Corvo era già così nota presso gli Ebrei e ancor prima in Mesopotamia; furono però gli antichi Greci i primi ad associare queste due figure a quella del Calice (Crater); stando alla curiosa storia presente nella mitologia greca, il dio Apollo diede al Corvo, allora bello e con una stupenda voce, un Calice con il compito di portargli dell’acqua ma il volatile, preso dal desiderio di mangiare gli abbondanti frutti degli alberi che sorvolava, si attardò a tal punto che Apollo, adirato per l’oltraggio, non volle perdonarlo, punendolo togliendoli la stupenda voce e i suoi magnifici colori: di certo una punizione fin troppo severa, nonostante il corvo avesse portato a sua discolpa il serpente d’acqua (l’Idra) che, a suo dire, lo avrebbe trattenuto. Come solitamente accadeva in passato, anche questa costellazione venne diversamente rappresentata da altre culture; in India le sue quattro stelle più luminose delineavano la mano di un immenso cacciatore - qualcosa simile ad Orione - mentre i beduini, oltre a rappresentarvi la “groppa” di un gigantesco Leone (che solo in parte comprendeva quello odierno), vi videro in un secondo tempo anche il “trono dell’indifesa”, chiaramente riferito alla solitaria e vicina Spica; ancor prima, i babilonesi videro nelle quattro stelle corvine un cavallo, mentre i cinesi vi immaginarono un “carro imperiale che cavalca il vento”. In tempi più moderni, Julius Schiller, nella sua idea di associare alle costellazioni termini religiosi, cambiò le figure del Corvo e del vicino Calice ne “l’arca delle leggi di Mosè”.

Il Corvo contiene nei suoi ristretti 184 gradi quadrati di estensione solo sei stelle più luminose della quinta grandezza mentre una cinquantina sono quelle visibili solamente con un cielo particolarmente buio e terso.

Alchiba (α Crv)
Nome che deriva dall’arabo Al-Khiba' (“la tenda”), attribuito evidentemente ad una rappresentazione diversa da quella conosciuta; un altro nome proprio di questa stella, meno conosciuto, è Alminliar, che deriva da Al Minliar al Ghurab con cui gli arabi identificavano il “becco del corvo”, nome modificato anche nel latino Rostrum Corvi. Pur essendole stata attribuita dal Bayer la prima lettera dell’alfabeto greco, questa stella bianca di quarta grandezza, distante  68 anni-luce, è appena la quinta in ordine di luminosità dell’intera costellazione.

Kraz (β Crv)
Nome di origine oscura, apparso per la prima volta in un più che moderno atlante celeste ("Atlas Coeli Skalnate Pleso 1950.0"), edito a cura dell’astronomo A. Becvar) per questa stella che occupa l’angolo sud-orientale del quadrilatero, una gigante arancione che splende di magnitudine apparente 2,65 dalla distanza di 146 anni-luce.

Gienah (γ Crv)
Il nome deriva dal termine Al Janah al Ghurab al Aiman (“l’ala destra del corvo”), introdotto dall’astronomo tartaro Ulugh Beg (XV secolo) in riferimento alla sua posizione; esso venne tramutato nel latino Dextra ala Corvi. Situata nell’angolo di nord-ovest del quadrilatero, questa gigante bianca di magnitudine 2,59 e lontana 154 anni-luce è la più luminosa delle stelle di questo piccolo distretto celeste.

Algorab (δ Crv)
Nome che deriva chiaramente dall’arabo Al-ghuraab (“il corvo”). Si tratta di un sistema doppio, forse solo prospettico: la componente principale, una subgigante bianca lontana 87 anni-luce da noi e dalla luminosità assoluta 70 volte quella del Sole è accompagnata a 24,2” d’arco da una nana arancione di nona grandezza che, pur condividendone il moto proprio, non ha mostrato variazioni nell’angolo di posizione dall’epoca della sua scoperta, datata 1823.

Minkar (ε Crv)
Il nome deriva dall’arabo Al-mánxar (“la narice del Corvo”). Occupa l’angolo sud-occidentale, non lontana da Alchiba; questa stella, che splende esattamente di terza grandezza, è una gigante arancione dal raggio ben 52 volte quello del Sole, lontana ben 318 anni-luce.


domenica 26 aprile 2015

I RECORD DELL'AMMASSO DI GALASSIE DELLA CHIOMA DI BERENICE

Tornando a puntare l'attenzione sulla costellazione della Chioma di Berenice, posta esattamente a metà strada tra le stelle Denebola (β Leo) e Cor Caroli (α Cvn), e del suo ammasso stellare Melotte 111, il terzo più vicino al Sole, è doveroso accennare al fatto che proprio da quelle parti è situato uno dei più famosi ammassi di galassie, che prende nome dall'omonima costellazione e che si trova proprio nei pressi del Polo Galattico Nord, vale a dire, lontanissimo dalle isofote della Via Lattea e privo, quindi, dell'assorbimento indotto dalle polveri interstellari presenti nella nostra galassia.

Come sempre accade, ma è questa una precisazione diversa per chi di Astronomia è a digiuno, quest'ultima categoria di oggetti si rende del tutto invisibile ad occhio nudo; sono infatti necessari telescopi di un certo calibro, con un diametro almeno superiore ai 200 mm, per poter dieci scorgere sia le ellittiche che le spirali più luminose che lo popolano poiché queste splendono con magnitudini comprese tra la dodicesima e la quattordicesima grandezza.

Immagine ad ampio campo dell'ammasso di galassie della Chioma ripreso dal telescopio Schulman di 0,8 m del Mount Lemmon SkyCenter 

In questo ammasso di galassie, dalla forma grossolanamente sferica, sono state contate almeno un migliaio di componenti, la cui distanza media da noi è stimata in circa 320 milioni di anni-luce; noto anche come Abell 1656, assieme all'ammasso di galassie del Leone (Abell 1367), costituisce uno dei due gruppi principali che, a loro volta, formano il cosiddetto Superammasso di galassie della Chioma, su cui torneremo dopo. La misura della velocità di molte componenti di Abell 1656, rilevata per la prima volta negli anni '50 dello scorso secolo da parte dell'astronomo svizzero Fritz Zwicky, indica che alcune di esse si muovono all'interno della sfera d'attrazione gravitazionale dell'ammasso stesso a più di 3,6 milioni di chilometri all'ora: valori così elevati di velocità presuppongono una massa totale davvero elevata per tutte le galassie dell'ammasso, una quantità di materia che non appare "visualmente" nelle varie galassie ma che si stima essere ben il 90% della massa totale dell'ammasso della Chioma. Da un punto di vista storico, questo ammasso di galassie fu il primo oggetto di questo tipo in cui vennero individuate anomalie gravitazionali, indicative di massa inosservata anche se l'idea di materia oscura che permea e tiene uniti gli ammassi galattici, proposta proprio da Zwicky, non sarebbe stata accettata per i seguenti cinquant'anni.

Quello della Chioma di Berenice è l'ammasso di galassie più luminoso nei raggi X, una intensa sorgente - "Coma X-1", così come è nota - che ha un potere emissivo nella banda X pari a Lx = 2,6 x 10^44 erg/s. Questa venne per la prima volta individuata tramite un pallone sonda negli anni '60 del secolo scorso e successivamente dal satellite Uhuru, il primo dedicato allo studio dei raggi X - allora non è difficile trovare una spiegazione per almeno una parte di questa "massa mancante": tutto l'ammasso è infatti permeato da gas intergalattico rarefatto molto caldo, riscaldato ad alcuni milioni di gradi allorché le galassie - e i gas che esse si trascinano dietro - lo attraversano, creando attrito. I raggi X individuati da telescopi orbitali in questo e in successive ricerche condotte in altri ammassi galattici vengono emessi proprio da questo gas estremamente caldo.

Mosaico a falsi colori ottenuto con immagini della Sloan Digital Sky Survey e del telescopio spaziale Spitzer (NASA): le piccole e deboli macchie verdi sono galassie nane mentre le due grandi galassie presenti al centro dell'ammasso sono le giganti ellittiche NGC4874 e NGC4889

Per molti anni si ritenne che i legami gravitazionali dell'ammasso della Chioma di Berenice si estendessero per almeno 20 milioni di anni-luce, pari a 200 volte il diametro della nostra stessa galassia, la Via Lattea; misurazioni più accurate degli spostamenti verso il rosso condotte alla fine degli anni '70 del secolo scorso mostrarono però che alcune galassie associate a questo ammasso si trovano ad almeno 100 milioni di anni-luce dal centro dell'ammasso stesso, pari ad almeno 1000 volte il diametro della nostra galassia! Fu proprio questa l'evidenza o, meglio, la scoperta di un superammasso galattico che raggiunge il ragguardevole ed inimmaginabile diametro di 20 milioni di anni-luce: uno dei primi oggetti di questo tipo, tra l'altro, che furono identificati come tali!

Lo studio del Superammasso della Chioma di Berenice - come venne subito chiamato - di altri oggetti di questo tipo permette di capire la gerarchia della materia nell'Universo e come la materia si distribuisca a grande scala. I dati osservativi mostrano che l'Universo possiede una struttura simil-cellulare, in cui gli ammassi di galassie sono compresi in strutture irregolari ancora più grandi, i cosiddetti superammassi, separati fra loro da immensi vuoti cosmici come quello cosiddetto "del Boote". La massa dell'ammasso di galassie della Chioma di Berenice è solo una piccola ciocca nel filamento della vasta rete cosmica di superammassi intrecciati tra loro, estesa per milioni e milioni di anni-luce.

Mappa del superammasso di galassie della Chioma

Al centro di ammassi di galassie densi sono sempre presenti galassie ellittiche supergiganti, di dimensioni davvero ragguardevoli e ben oltre la media per oggetti di quella tipologia; questa "regola" vale anche per l'ammasso della Chioma, al centro del quale risiedono le due luminose galassie ellittiche giganti note NGC4874 ed NGC4889. Molte altre galassie situate nei pressi del centro di questo grande ammasso stanno scemando attorno a queste due enormi giganti, dirigendosi verso un gorgo gravitazionale. E infatti le cose stanno veramente così; anzi, è proprio in questo modo che le galassie giganti sono diventate tanto grandi: inghiottendo le altre più piccole appartenenti a questo e ad altri ammassi!

Anche il denso ammasso di galassie Abell 2199, presente nella costellazione di Ercole, che inizia ad a fare capolino sull'orizzonte di prima sera in questo periodo ad oriente, possiede nel suo centro una galassia ellittica supergigante nota come NGC6166, talmente enorme che accanto ad essa la grande galassia di Andromeda e la nostra Via Lattea scomparirebbero! In particolare, il nucleo di questa galassia rivela la presenza di varie componenti, meglio note come "nuclei multipli", caratteristica comune per gran parte delle galassie ellittiche supergiganti. In particolare, NGC6166 è stata sorpresa in flagrante nell'atto di divorarsi altre galassie e, a tutti gli effetti, la "digestione" dei loro nuclei, ciò che si vede ai telescopi, è un processo lento e laborioso che però, entro alcune centinaia di milioni di anni, porterà questi ex-nuclei galattici ad essere completamente assimilati in quello che potrebbe dar vita ad un nucleo galattico attivo, al centro del quale risiederà con ogni probabilità un buco nero super massiccio.

Con ogni probabilità, entro alcuni miliardi di anni l'Universo sarà popolato da un numero certamente minore di galassie di stazza "normale", mentre aumenterà il numero di galassie "cannibali" supergiganti che si ingrasseranno a dismisura al centro di ammassi ricchi, lasciando attorno a se solo vicine deboli, oscure e poco attraenti.

mercoledì 22 aprile 2015

I NOMI PROPRI DELLE STELLE: "VIRGO, VIR, LA VERGINE"

Gran parte delle più luminose tra quelle che si stagliano sulla volta celeste possiedono nomi propri derivati da antiche tradizioni per lo più arabe, greche e latine; altri ancora, cinesi o indù.
Andando a ricercare qua e la informazioni sulla loro etimologia (a tal proposito, il volume “Star Names: their Lore and Meaning” di Richard H. Allen è senz’altro una delle fonti più complete), si trova di tutto e di più: nomi assenti o altri che sembrano essere sbucati dal nulla, mai letti altrove; altri, del tutto storpiati nonché alcuni, i medesimi, addirittura attribuiti a più stelle senza che ne venga specificato il motivo.

E’ chiaro, quindi, che una certa confusione permea questo argomento. Tra l’altro, per esperienza personale, posso affermare che solo i nomi propri delle stelle più luminose sono conosciuti dagli astrofili, anche quelli “evoluti”, che già non riescono ad individuare quale sia, ad esempio la stella “Gemma” ne il significato del suo nome proprio. Oggi si fa gara ad attribuire nomi a crateri su corpi del Sistema Solare in procinto di essere esplorati o su nuovi asteroidi scoperti; nonostante questo, l’Unione Astronomica Internazionale non ha mai affrontato seriamente l’argomento dei nomi propri delle stelle, lasciando che una marea di informazioni di diverso tipo abbia generato una grande confusione su questo argomento, lasciando la cosa del tutto indefinita. 

Ecco quindi questa mia idea di far luce su questa brodaglia esistente, pescando informazioni accurate per giungere ad un quadro più possibilmente sintetico ma allo stesso tempo “definitivo” sui nomi propri delle stelle, fornendo anche dati essenziali sulle loro caratteristiche e/o grandezze intrinseche.

Le costellazioni verranno presentate non secondo ordine alfabetico ma di “visibilità” mensile mentre le singole stelle secondo la catalogazione del Bayer nella sua Uranometria del 1603. E poiché Aprile è per antonomasia il mese delle galassie, inizierò dalla costellazione che forse meglio rappresenta le profondità cosmiche e che da il nome all’ammasso di galassie cui appartiene il nostro gruppo locale: la Vergine.


VIRGO, VIR, LA VERGINE



Spica (α Vir)
Il nome deriva dal latino “Spica virginis”, visione tradizionale greco-romana che vedeva nelle stelle che oggi delineano la costellazione della Vergine la dea delle messi Demetra/Cerere, raffigurata tenere nella mano sinistra una spiga di grano. Tale particolare è un evidente riferimento alla stagione della mietitura, poiché la spiga di grano ne è simbolo universale; l’azzurra stella della Vergine fu infatti di grande importanza per le antiche civiltà basate sull’agricoltura e proprio su essa venne costruita la figura di una dea benefica portatrice di prosperità ed incorrotta, che assunse diversi nomi a seconda delle culture (Astrea nella tradizione greco-romana, Kanya in India, Isthar a Babilonia, Iside nell’antico Egitto…). Molto probabilmente, questa raffigurazione nacque dal mito ancestrale di un’epoca remota di benessere, prosperità e abbondanza, la cosiddetta “età dell’oro”. Altri nomi propri attribuiti a questa stella sono di origine araba: Azimech, derivato da “Al Simak al A'zal” (“l’indifesa”, per la mancanza di stelle relativamente luminose nei suoi paraggi), Alaraph (“la vendemmiatrice”) e Sumbalet (la spiga di grano), queste ultime due molto probabilmente acquisite dalle antiche tradizioni europee.

Zavijava (β Vir)
Il nome deriva dall'arabo “Zāwiyat Al'Awwā'”, in riferimento all’antica figura di un canile o di cane che abbaiano in un canile. Questa figura, oggi chiaramente scomparsa, era delineata da tutte quelle stelle di quasi terza grandezza che sono situate nella parte occidentale della costellazione della Vergine, disposte a formare una grande figura ricurva: parliamo quindi di β, γ, η, δ ed ε Vir. Il secondo nome proprio di β Vir, anch’esso di chiara derivazione araba, è Alaraph, “la vendemmiatrice”, in riferimento alla tradizione greco-latina.

Porrima (γ Vir)
Il nome, di orgine latina, si riferisce ad una dea minore della mitologia romana relativa all’arte divinatoria, che era invocata soprattutto per la protezione dei parti. Assieme a β, η, δ ed ε Vir, essa formava presso gli antichi arabi l’asterisma “Al'Awwā'” (“canile” o “cane che abbaia nel canile”).

Alawa (δ Vir)
Nota anche come Minelauva, storpiatura europea di origine medioevale, deriva dall'arabo “Al'Awwā'” (“canile” o “cane che abbaia nel canile”), l’antico asterisma formato da questa e dalle vicine β, γ, η ed ε Vir.

Vindemiatrix (ε Vir)
Il nome è di chiara origine latina e deriva dalla figura tradizionale con cui era interpretata l’intera costellazione nella tradizione greco-latina, una donna intenta alla vendemmia dell’uva; ciò è collegato al fatto che l’elevata eliaca (prima dell’alba) di questa stella segnava l’epoca della vendemmia, motivo per il quale la stella era chiamata letteralmente “l’annunciatrice della vendemmia”. Questa volta, però, furono gli arabi ad usare il significato di questo nome mutandolo in “Al Mutakaddim al-kitaf”, il quale venne a sua volta storpiato dagli europei come Almuredin, altro nome con cui tale stella è nota. Anche ad essa, in epoca medioevale, venne attribuito l’arabo Alaraph come ad altre vicine e sempre gli arabi fecero di ε Vir parte del loro "Al'Awwā'" (“canile” o “cane che abbaia nel canile”) assieme a β, γ, η e δ Vir.

Heze (ζ Vir)
Nome privo di significato poiché di origine oscura.

Zaniah (η Vir)
Anche questo nome deriva chiaramente dall'arabo "Zawiyah", similmente al Zavijava attribuito a β Vir; anche questa, infatti, assieme a β, γ, δ ed ε Vir presso gli arabi essa formava l’asterisma “Zawiyat Al'Awwā'” (“canile” o “cane che abbaia nel canile”).

Syrma (ι Vir)
Deriva dal greco "Surma", che l’astronomo Tolomeo usò per identificare una veste o comunque un indumento, in riferimento alla figura della Vergine o comunque della donna qui rappresentata in procinto di vendemmiare.

Khambalia (λ Vir)
Essendo la stella in questione lontana dall’area dove gli antichi arabi vedevano la figura di un cane che abbaia, il suo nome non deriva quindi da quella tradizione ma è, bensì, di origine copta e sta a significare 'l’artiglio deforme'; mancano riferimenti certi ma forse è in relazione alle vicine figure del Corvo e dell’Idra.

Rijl Alawa (μ Vir)
Il nome è di origine araba ed è in riferimento alla posizione che questa stella occupa nella figura della dea o della donna, delineandone il ginocchio o comunque la gamba sinistra; assai meno chiaro è l’abbinamento, a questo nome, del secondo termine che deriva dall’asterisma chiamato "Al'Awwā'" (“canile” o “cane che abbaia nel canile”) della tradizione araba pre-islamica, formato dalle stelle che oggi si trovano nella posizione diametralmente opposta entro i confini della medesima costellazione zodiacale.


martedì 21 aprile 2015

"SORGENTI X TRANSIENTI E STELLE DI NEUTRONI"

Tra le nuove leve che in Astronomia hanno arricchito in anni recenti lo zoo di oggetti esotici figurano le cosiddette “sorgenti X ad emissione transiente”.

Loro responsabili sono coppie formate da una stella di neutroni legata gravitazionalmente ad una caldissima stella di tipo Be. Proprio la sigla “e” posta accanto al tipo spettrale (B) è la chiave per l’interpretazione di questi inconsueti e allo stesso tempo violenti fenomeni: essa, infatti, indica la presenza di linee di emissione cosiddette “proibite” nei loro spettri, indice che queste stelle possiedono basse densità: il che, quindi, induce a trattarsi esclusivamente di stelle giganti, le cui linee di emissione, parallelamente ad un eccesso di radiazione infrarossa riscontrato per stelle così calde, sono attribuibili a gas che la stella rilascia a livello equatoriale formando anelli toroidali che si dispongono attorno ad esse generalmente a distanze dell’ordine dei 30-40 raggi stellari.


Elaborazione al computer relativa alla formazione di un disco di materiale gassoso fino a 60 raggi stellari da una stella Be

La causa del rilascio di questo materiale gassoso è dovuta alla forza centrifuga della stella che bilancia la gravità a livello equatoriale; in altre parole, queste stelle possiedono elevatissime rotazioni sul proprio asse, solitamente attorno ai 200 km/s o addirittura maggiori: valori compresi tra 0,5 e addirittura 0,9 quello critico per il quale l’intera struttura stellare può essere ancora tenuta assieme e non sfaldarsi! Tra le più note e meglio studiate Be figurano Achernar (α Eri), α Ara, γ Cas, κ CMa, Gomeisa (β CMi) e ζ Tau.
 
Solitamente, le orbite di stelle a neutroni legate a compagne di tipo Be (o ancora più calde) sono ampie e spesso molto eccentriche; a causa di queste particolari configurazioni geometriche, avviene quindi che le pulsar, di tanto in tanto, si avvicinino ai dischi di gas rilasciati dalle compagne giganti, addirittura attraversandoli in alcuni casi: la cattura di tale materiale da parte delle stelle degeneri, che va ad impattare su queste generando aree ad elevatissima temperatura, le porta a divenire quindi sorgenti di raggi X.
 
Il problema, in questi casi, è che l’apparizione di queste sorgenti è temporanea - l’intermittenza o, meglio, “l’accensione” di queste sorgenti X può variare con mesi o addirittura anni di ritardo tra un episodio e l’altro - e non duratura nel tempo; per qualche strana ragione non ancora ben compresa, il materiale disco toroidale generato dalla stella Be si espande e successivamente si contrae (comportamento nel quale, molto probabilmente, vi è zampino delle loro rotazioni critiche che, per qualche strano motivo, verrebbero smorzate, inducendo quindi rigetti alternati di materiale) lasciando a volte la stella di neutroni “a secco” allorché questa, tornando ad avvicinarsi, trova il disco toroidale con densità minima o, in altri casi, affatto esistente.
 
Episodi di questo tipo accadono anche laddove, al posto di una gigante Be, le stelle di neutroni sono accoppiate a quelle che sono le più estreme tra le stelle, le cosiddette stelle supergiganti di tipo O, le più calde e luminose presenti nel Cosmo assieme alle stelle WR.

In questi casi - noti nella terminologia d’uso come “Supergiant Fast X-ray Transients” o più semplicemente “SFXTs” -  l’emissione X da parte delle pulsar cresce in intensità in tempi brevissimi, compresi tra poche decine di minuti e qualche ora, comportamento che è evidentemente dovuto o alla natura intrinseca delle compagne supergiganti o alla geometria delle orbite delle stelle degeneri poste attorno a stelle O così estreme, che sono anche tra le più massicce conosciute. L’intensità di queste estreme sorgenti X transienti sprigionate dalle SFXTs è tale che questi brevi “lampi” - a tutti gli effetti, questi episodi  possono essere così definiti - raggiungono intensità fino a 100 mila volte quelle riscontrate nei periodi di quiete!


Uno dei primi e finora meglio studiati oggetti di questo tipo è XTE J1739–302, individuato nel 1997 allorché rimase attivo un solo giorno per poi ripetersi nel 2008; proprio di recente, un’altra sorgente ricorrente di questo tipo, nota con la sigla IGR J17544−2619, ha sprigionato un eccezionale lampo X (rilevato dal satellite NASA Swift e studiato da un team composto da astronomi anche italiani) che ha superato non solo di una decina di volte il proprio record di luminosità osservato in eventi passati ma, addirittura, il limite massimo di luminosità che sorgenti di questo tipo dovrebbero esibire.

giovedì 16 aprile 2015

L'AMMASSO STELLARE DELLA CHIOMA DI BERENICE

Visibile altissima sull’orizzonte in queste nottate di primavera, esattamente a metà strada tra Denebola (β Leo) e Cor Caroli (α CVn), la costellazione della Chioma di Berenice attrae l'attenzione dell'osservatore, anche quello inesperto, per il suo ammasso aperto perfettamente visibile ad occhio nudo ed esteso per ben 6° sulla volta celeste! In tempi antichi, esso fu visto come la punta della coda del Leone celeste; fu invece il grande Tycho Brahe, in tempi molto più recenti, ad essere ispirato da questo gruppo di stelle a tal punto che decise anch’egli, come di moda a quei tempi, di creare con esse una nuova costellazione da aggiungere alle 48 originarie tolemaiche: fu così che quelle sparute stelle divennero, nella sua fantasia, i capelli della regina alessandrina Berenice.


L'area celeste, nel cielo primaverile dove è presente l'ammasso stellare della Chioma di Berenice


Eppure questo gruppo, centrato sulla stella γ Com (mag. 4,36), a differenza di altri oggetti di questo tipo ben noti quali l'ammasso stellare del Cancro, quello di Tolomeo nello Scorpione e le Iadi e le Pleiadi nel Toro, esso non venne compreso nel famoso catalogo di oggetti stellari facili edito dall’astronomo francese Charles Messier; ne, tantomeno, venne riportato come ammasso aperto nel Nuovo Catalogo Generale di oggetti deep-sky ben noto in Astronomia. Fu l’astronomo Philibert Jacques Melotte che, successivamente, incluse “l’ammasso stellare della Chioma” - come ai tempi era noto - nel suo catalogo di ammassi aperti con il numero 111; edito nel 1915, questo catalogo venne costruito utilizzando una delle prime surveys fotografiche celesti di sempre, eseguita dall’astrofilo inglese John Franklin-Adams nel cielo australe del Sud Africa: un lavoro immane per i tempi, contenente ben 206 mappe fotografiche, ognuna estesa per ben 15°, che coprivano l’intera volta celeste con stelle fino alla 17° grandezza!


Mappa di Melotte 111


Melotte 111, questo quindi il suo nome “in codice”, trovandosi posizionato ad una latitudine galattica piuttosto elevata, è ben lontano dalla Via Lattea; questa particolarità fa si che questo gruppo stellare - le cui componenti più luminose sono disposte a formare una specie di Y rovesciata che ricorda molto la costellazione del Cancro - si renda piuttosto appariscente ad occhio nudo destando quasi una sensazione di profondità rispetto all’area circostante popolata da stelle non eccezionalmente luminose, una caratteristica del cielo di Primavera. Provare per credere! Ad ogni modo, lo strumento ideale per apprezzarne la bellezza e i dettagli è senz’altro il binocolo.



Fotografia a largo campo dell'ammasso stellare della Chioma

C'è da dire che alcune tra le selle più luminose che popolano l’area, in particolare γ Com e 18 Com, non sono reali componenti dell’ammasso ma si proiettano avanti ad esso; quelle vere, circa una sessantina, vennero identificate come tali già nel 1938 ad opera dell’astronomo Robert Trumpler osservandone moto proprio e velocità radiale. Le reali componenti più luminose del gruppo stellare sono 14 e 16 Com, di quinta grandezza e dalla luminosità intrinseca una cinquantina di volte quella solare; la maggior parte del resto delle stelle facenti parte dell’ammasso stellare della Chioma sono quasi tutte più luminose della 7a grandezza ma non mancano altre apparentemente ancor più deboli.


Queste hanno il loro centro geometrico posto a 286 anni-luce dal Sistema Solare, valore che quindi rende Melotte 111 il terzo ammasso stellare in ordine di distanza dal Sole dopo la corrente stellare dell’Orsa Maggiore e le Iadi! Per termini di confronto, se il Sole distasse la medesima quantità, esso apparirebbe come una debole stella - badate bene - di nona grandezza! Ad ogni modo, mettendo in relazione la distanza con la sua estensione apparente, ne consegue che l’ammasso stellare è esteso nello spazio per un diametro di quasi 23 anni luce.


Mel 111 è un oggetto relativamente giovane, con un'età stimata delle sue componenti compresa tra i 400 e i 600 milioni di anni e con una massa totale stimata inferiore a quella di 100 stelle come il Sole; valore che porta a dedurre che le sue componenti sono stelle nane come il Sole, ancora in fase di conversione dell’idrogeno in elio (dette “di sequenza principale”). Sebbene Mel 111 non contenga quindi stelle giganti, il diagramma HR costruito per le sue componenti mostra che alcune di queste sembrerebbero iniziare ad uscire dalla cosiddetta “sequenza principale”, evolvendosi in sub-giganti; sempre dallo stesso diagramma, che si interrompe bruscamente laddove sono presenti stelle rosse attorno alla sesta grandezza come magnitudine assoluta.


In alter parole, stelle le nane rosse, che negli ammassi stellari aperti costituiscono una buona percentuale della massa degli stessi e sono ben presenti, sembrano essere del tutto assenti da Mel 111, il che porta ad ipotizzare che le sue stelle più minute (in termini di massa) possano essere andate disperse nello spazio causa la poca coesione gravitazionale dell’ammasso, man mano che esso percorreva la sua orbita nella Via Lattea. A tutti gli effetti, se paragoniamo Mel 111 con le ben più famose Pleiadi (con le quali condivide età e volume), allora ci si accorge facilmente che la sua densità - pari a circa una sola stella per parsec cubico (ricordiamo qui che 1 parsec equivale esattamente a 3,26 anni-luce e 1 anno-luce più o meno a 10 mila miliardi di km!) - è davvero minima, un valore davvero limite per un ammasso stellare affinché resti gravitazionalmente coeso e possa continuare a vivere come un'unica entità.



I colori delle stelle di Melotte 111 e le galassie che ne popolano il campo


Fra le stelle che popolano il gruppo sono presenti osservare un gran numero di galassie, alcune delle quali luminose e davvero belle come NGC 4559 ed NGC 4565; non lontano da li, è situato uno dei più famosi ammassi di galassie, prossima tappa di questo viaggio nel Cosmo.