mercoledì 31 gennaio 2018

L'ENIGMA SVELATO DI EPSILON AURIGAE

Il vasto mondo delle stelle variabili è quanto mai affascinante a causa delle numerose tipologie di curve di luce che tali astri esibiscono; disegni che, messi in relazione alle caratteristiche spettrali e ad altre grandezze intrinseche quali diametri, luminosità o parametri orbitali (nel caso di componenti binarie in eclisse) riescono spesso a fornire quadri abbastanza indicativi di quanto, a distanze davvero inimmaginabili per l’umana mente - a volte, anche dell’ordine di migliaia di anni luce - accade. La strada per arrivare alla piena comprensione di tali scenari è spesso densa di misteri che però, a volte, vengono svelati grazie all’apporto delle moderne tecnologie applicate agli strumenti dediti all’osservazione astronomica. Uno di questi riguarda la recente risoluzione di un enigma che da quasi due secoli avvolgeva una tra le tante stelle di terza grandezza presenti nel firmamento: ε Aurigae. Partiamo prima, però, per un breve excursus storico/nozionistico lungo i passi che hanno fatto luce su questa che è tra le più importanti e singolari variabili ad eclisse conosciute.


Innanzitutto, Almaaz è il nome proprio di ε Aurigae, che trae origine dall'arabo al-mācz ("il capretto"), secondo la classica rappresentazione che gli antichi arabi ereditarono dalla tradizione greco-romana; tale stella, infatti, con le vicine ζ, η Aurigae delinea un singolare triangolo stellare non lontano dalla luminosissima Capella (α Aurigae), nelle quali la tradizione greca vedeva tre piccole caprette venute appena alla luce e vicine alla loro madre (Capella); tale quartetto che era tenuto in bracci da un personaggio che la tradizione greca identificava nel mitico Erittonio.

Sebbene la stella sia facilmente visibile ad occhio nudo, le variazioni della luce di ε Aurigae vennero individuate per la prima volta nel 1821 dall’astronomo tedesco Johann Fritsch. Ulteriori osservazioni, effettuate tra il 1842 e il 1848 ad opera di altri due astronomi tedeschi, Eduard Heis e Friedrich Wilhelm Argelander, evidenziarono come, a partire dal 1847, la luminosità apparente di ε Aurigae iniziò ad abbassarsi significativamente fino alla magnitudine 3,8; poco meno di due anni più tardi, la stella tornò a risalire, stabilizzandosi alla terza grandezza.

Tele bizzarro comportamento attirò su di essa l’attenzione della comunità scientifica del tempo; di conseguenza, vennero ottenuti numerosi dati osservativi dai quali si evidenziò come la stella, oltre a subire variazioni di luce di un lungo periodo, ne mostrava altre di breve termine e di minor entità. Le successive variazioni di luce si verificarono tra il 1874 e il 1875 e, nuovamente, quasi trent'anni dopo, tra il 1901 e il 1902. Quindi nel 1928, 1955 e 1982, fino all'ultima avvenuta nel 2009.

A seguito di studi dettagliati, l’astronomo tedesco Hans Ludendorff, direttore dell'osservatorio di Postdam, pubblicò nel 1904 un articolo sul Astronomische Nachrichten dal nome “Untersuchungen über den Lichtwechsel von ε Aurigae” (Indagini sui cambiamenti di luce di ε Aurigae) nel quale, per la prima volta, veniva suggerito come la stella fosse una variabile ad eclisse del tipo Algol. Nel suo modello, le variazioni di lungo periodo derivavano da mutue eclissi da parte di due stelle componenti il sistema mentre quelle a breve termine erano indotte dal trasferimento di materiale gassoso da una all'altra delle due componenti. Ludendorff suggerì che il periodo orbitale fosse pari a poco più di 54 anni e 3 mesi e che il periodo in cui i minimi osservati si presentavano (27,12 anni) derivasse dalla separazione delle stesse; la visione di Ludendorff non era lontana dalla realtà, poiché il periodo orbitale oggi riconosciuto è pari a 27,12 anni, uno tra i più lunghi noti tra le variabili ad eclisse. Anche se chiaramente non poteva ancora saperlo, la sua dichiarazione conclusiva secondo cui ε Aurigae era uno "strano sistema" sarebbe ancora oggi perfetta così come lo era nel 1904!

Dall'epoca della sua scoperta, la stella dell’Auriga divenne presto un vero puzzle tanto che alcuni dei più grandi nomi dell'Astronomia hanno cercato di farvi luce. Uno dei problemi principali, ad esempio, era il fatto che, sebbene l'eclisse mostrasse un minimo piatto - tipico delle eclissi totali (per 370 giorni, la luce resta pressoché costante al minimo) con un solo spettro - quello di una stella di tipo F - lo spettro dell'altro corpo non compariva mai: cosa che portava a concludere che la stella di tipo F restava completamente occultata dietro un'altra stella più grande e più oscura. Una singolare stranezza quella dello spettro della stella F, che non scompariva mai come invece dovrebbe avvenire quando la stella viene completamente eclissata: questo restava solo indebolito, come se la sua luce passasse attraverso una sorta di filtro.


Il primo modello accurato su ε Aurigae venne elaborato nel 1937 dai grandi astronomi visuali Gerard Kuiper, Otto Struve e Bengt Strömgren, tutti e tre membri dello Yerkes Observatory; questo delineava un sistema binario contenente una stella supergigante di tipo F e un’altra così fredda e poco densa tale da essere dagli stessi definita come “semitrasparente”: quest’ultima la diretta responsabile delle eclissi totali apportate alla compagna. Secondo tale modello, la luce della stella F, completamente eclissata, sarebbe però stata diffusa dalla estremamente esile atmosfera della compagna eclissante, allo stesso modo in cui la corona del Sole diffonde la luce proveniente dalla sottostante fotosfera. Nel 1961, l'astrofisica Margherita Hack, a seguito di osservazioni durante l'eclissi del 1955-57, propose che la componente secondaria potesse essere invece stella calda e circondata da un guscio di materiale, diretto responsabile dell'eclissi. L'astronomo americano di origine cinese Su-Shu Huang, delineando in una pubblicazione del 1965 alcuni difetti presenti nel modello precedentemente redatto da Kuiper, Struve e Strömgren propose come soluzione che il misterioso compagno eclissante potesse essere in realtà un esteso e particolarmente denso sistema di dischi di polvere in orbita attorno alla stella, posti quasi di profilo lungo la nostra visuale. Scenario che nel 1971, ad opera dell’astronomo Robert Wilson, venne modificato con l'introduzione di un disco sottile ed inclinato, con tanto di apertura centrale, che andava a sostituire il disco spesso proposto da Huang; tale modello poteva descrivere più facilmente gli effetti osservati delle eclissi, in particolare la veloce risalita e seguente ritorno al minimo osservata a metà delle eclissi.


A partire dal i primi anni ’70 del secolo scorso, tutte le ipotesi sono focalizzate sul modello di un disco sottile; tuttavia, sul sistema di ε Aurigae restano ancora alcune domande senza una chiara riposta: la stella F, componente primaria del sistema, è una supergigante massiccia o una stella del ramo gigante post-asintotica? Qual è il centro del disco eclissante? Questo è inclinato o deformato? E quanto massiccio? In tempi più recenti, precisamente nel 2005, il sistema di ε Aurigae venne osservato nell'ultravioletto dal telescopio spaziale FUSE (Far Ultraviolet Spectroscopic Explorer); dal momento in cui questo sistema stellare non emette energie con valori caratteristici di oggetti esotici come sistemi binari formati da coppie di stelle a neutroni o da buchi neri, venne quindi concluso che l'oggetto caldo presente al centro del disco non poteva essere un residuo stellare di questo tipo quanto una più comune ma calda stella di tipo B5.

La comprensione di questa misteriosa variabile è cresciuta di pari passo al progredire delle tecniche applicate in Astronomia. ε Aurigae è stata osservata in quasi tutte le lunghezze d'onda dello spettro elettromagnetico: essa è nota per essere luminosa nell'infrarosso, nell'ottico e nell'ultravioletto ed anche fotometricamente e spettroscopicamente variabile a molte lunghezze d'onda. La componente primaria è stata risolta utilizzando l'interferometria ottica e si presenta con un diametro apparente pari a 2,2 millesimi di secondo d'arco; le reali dimensioni, tuttavia, sono del tutto indicative in quanto sulla distanza del sistema esiste un margine di incertezza tale da porlo tra i 650 e i 1500 anni luce. Si presume, tuttavia, che la componente primaria sia una stella gigante o supergigante.

Ad oggi, sono due i modelli che spiegano le caratteristiche osservate, l'uno detto "di massa elevata”, l'altro “di massa ridotta”. Nel modello “a massa ridotta”, la componente primaria è una gigante evoluta, attualmente sul cosiddetto ramo asintotico del diagramma HR, dalla massa compresa tra 2 e 4 volte quella del Sole, prospettiva basata su stime di distanza e luminosità che però sono inferiori alla maggior parte delle osservazioni. Più verosimilmente, la componente primaria del sistema, nota come ε Aurigae A, è una gigante di tipo F0 che, trovandosi sul ramo asintotico, esibisce tra l'altro pulsazioni semi regolari osservate nelle variazioni luminose a breve termine; stime sul diametro (pur queste variando considerevolmente a seconda della fonte) ne fanno una stella gigantesca, larga da 140 a 360 volte il diametro del Sole; di conseguenza, la superficie emissiva è talmente vasta che la sua luminosità intrinseca risulta essere ben 38 mila volte quella della nostra stella! Fosse idealmente collocata al posto del Sole, essa ingloberebbe sicuramente l’orbita di Mercurio e, forse, anche quella di Venere.


Ciò che si può dire sulla componente secondaria è che questa emette una quantità di luce relativamente insignificante nel totale emesso dal sistema; studi spettroscopici hanno rilevato come questa abbia una emissione fredda, ad appena 550 K, particolarità che porta a ritenere la secondaria essere per l'appunto il disco polveroso (di cui si accennava già sopra) dal raggio pari a 3,8 UA, che blocca circa il 70% della luce che lo attraversa, consentendo di vedere la luce della stella primaria anche durante le eclissi. Secondo la funzione di massa per tale sistema binario, questa dovrebbe avere una massa non dissimile dalla primaria, cosa che invece diverge dalle osservazioni, laddove essa risulta essere invece una stella di sequenza principale di tipo B che potrebbe anche essere, a sua volta, una binaria spettroscopica, costituita da due - o, forse, addirittura più - stelle di sequenza principale. La secondaria sarebbe quindi una stella di sequenza principale di tipo B5V, situata esattamente al centro del disco e la cui massa, a seconda del modello passerebbe, da un valore di 13 (massa elevata) a 6 (massa ridotta) volte quella del Sole.L'orbita, che risulta essere ben determinata, è inclinata di quasi 90° rispetto alla nostra visuale, con le due componenti tra loro lontane da 35 UA (nel modello a massa elevata) a 18 UA (in quello a massa ridotta).

Le immagini che hanno finalmente permesso chiarire l’enigma di ε Aurigae durante l’ultima eclisse, quella del 2009, sono state ottenute dall’interferometro Michigan Infra-Red Combiner; tale tecnica permette di ottenere elevati poteri risolutivi combinando coerentemente le informazioni che provengono da più osservatori astronomici distanti fra loro da pochi metri fino a migliaia di chilometri: essendo il potere risolutivo risultante proporzionale alla distanza tra gli osservatori stessi, l'interferometria permette quindi di superare i limiti imposti dalle difficoltà tecniche di realizzazione di telescopi a grande apertura e, quindi, molto costosi. Nel caso di ε Aurigae, la luce raccolta da quattro telescopi del CHARA Array della Georgia State University è stata combinata ottenendo così singole immagini con un livello di dettaglio equivalente a quelle che si otterrebbero con un singolo telescopio dallo specchio 100 volte più grande di quello dell’Hubble Space Telescope!


Il risultato è l’immagine più dettagliata finora ottenuta del sistema di ε Aurigae laddove, all’inizio dell’eclisse, è stata ripresa per la prima volta la sagoma dell’ombra prodotta sulla stella dal sottile disco di polveri, precedentemente ipotizzato, che orbita attorno alla stella; questo si trova quasi esattamente di taglio rispetto al piano visuale sul quale giacciono la stella e la Terra: un allineamento assolutamente eccezionale che dà origine ai fenomeni di fluttuazione luminosa osservati, risolto a quasi due secoli dalla scoperta.

mercoledì 3 gennaio 2018

IL RECENTE MASSIMO DELLA STELLA CON LA CODA

Potessimo osservare con attenzione la costellazione del Mostro marino (Cetus, impropriamente chiamato “Balena") comodamente in ogni notte dell'anno e senza il disturbo del Sole che le transita vicino in primavera, poco sotto l'esagono di stelle di terza e quarta grandezza che ne contraddistingue la testa noteremmo la presenza di una stella dalla colorazione prettamente rossastra che, dopo essere  apparsa dal nulla ed essersi resa visibile per soli due mesi, tornerebbe da li a poco a dileguarsi per scomparire nuovamente nelle oscurità cosmiche. Armati di buona pazienza, noteremmo però che, come per magia, essa tornerebbe a rendersi visibile e a scomparire nuovamente in un ciclo lungo 332 giorni: parliamo, ovviamente, di Mira, prototipo delle variabili pulsanti a lungo periodo.


L'anomalo comportamento luminoso di tale stella, lontana 410 anni luce dal Sistema Solare, venne notato per la prima vota sicuramente dall’olandese D.Fabricius nel 1596 quando essa venne valutata addirittura di prima grandezza, motivo che indusse l'astronomo a pensare potesse trattarsi di una nova; qualche anno più tardi, però, lo stesso dovette ricredersi allorché, nel 1609, la stella tornò nuovamente visibile. In tempi ancor più antichi, forse già l'astronomo greco Ipparco, nel II secolo a.C., sembra si fosse accorto di essa. Il suo bizzarro comportamento indusse l’astronomo polacco J.Hevelius ad attribuirle l’appellativo di "la meravigliosa”, che comparve nel Historia Mirae Stellae, pubblicato nel 1662. E non è difficile capirne il motivo: Mira fu, infatti, la prima stella variabile ad essere scoperta, seguita qualche anno dopo da Algol (β Per, prototipo delle variabili ad eclisse con orbita vista quasi di taglio) anche se, molto probabilmente, anche quest’ultima venne notata ben prima della sua scoperta, avvenuta nel 1670 ad opera dell'italiano G.Montanari.

Fu però un'altro astronomo olandese, J.P.Holwarda, a scoprire, durante uno studio sistematico effettuato nel 1638, che la stella scompariva e riappariva secondo un ciclo variabile da egli stimato in 330 giorni; in seguito, I.Bouillaud perfezionò la stima sul periodo di variabilità, valutandola in 333 giorni: sbagliò di meno di un giorno rispetto al valore di 332 giorni rilevato con misure odierne ma poiché le variabili a lungo periodo - chiamate “del tipo Mira” o “mireidi” - variano lentamente il loro periodo col tempo, la stima di Bouillaud potrebbe anche essere stata esatta per la sua epoca! Qualunque esperto osservatore del cielo che ponga attenzione su Mira potrà notare, senza difficoltà alcuna, come la stella sia invisibile ad occhio nudo per diversi mesi lungo l'anno solare, per poi rendersi visibile, raggiungere il massimo di luminosità e quindi discendere fino a sparire in un lasso di tempo relativamente breve, pari a soli 2 mesi: un comportamento certamente “meraviglioso” per primi contemplatori ne notarono l’andirivieni luminoso e per il quale, l’appellativo di Hevelius, calza perfettamente.

L'ultimo picco di luminosità di Mira è avvenuto nei giorni appena passati, esattamente tra il 29 e il 31 dicembre 2017: ancora in questi giorni, quindi, Mira è al massimo della luminosità (alla stesura di queste righe, essa splende di magnitudine 3,6), rendendosi perfettamente visibile ad occhio nudo. 

Documenti storici registrati anche in epoca telescopica riportano massimi di luminosità ancora maggiori; ciò accadde sicuramente il 6 novembre del 1779, quando la stella arrivò a brillare di magnitudine 2, divenendo allora la più luminosa della costellazione assieme a Diphda (β Cet).

Essendo comunque variabili, il più delle volte il massimo di luminosità di Mira scende alla magnitudine 4,9 (rendendosi, quindi, appena visibile ad occhio nudo, e con una differenza di luminosità fino a 15 volte tra i diversi massimi); ma ci sono indizi storici che suggeriscono come l'intervallo possa essere anche tre volte superiore a questo. I minimi differiscono tra loro molto meno, da sempre compresi tra le magnitudini 8,6 e 10,1: stabilire se tali differenze si verificano in modo del tutto casuale oppure se c'è qualche periodicità lunghissima che si sovrappone a fenomeni accidentali è per ora impossibile: occorrerebbero osservazioni ininterrotte estese per molti secoli che potessero consentire uno studio statistico. Il cambiamento totale di luminosità tra il minimo più basso e il massimo più alto (cosa che non succede in un singolo ciclo) è pari a ben 1700 volte. La forma della curva di luce è composta da un salita di luminosità lunga circa 100 giorni, seguita da una discesa che dura almeno il doppio.

Ad ogni modo, Mira raggiunge mediamente al massimo la magnitudine 3,5 per poi scendere poco oltre la decima: un cambiamento complessivo di luminosità di oltre 1.500 volte, che si perpetua in un ciclo lungo 332 giorni. Qui di seguito, curva di luce di Mira fino a data odierna (fonte: AAVSO):


Nelle variazioni di Mira, il picco si verifica quando la stella è più calda e, quindi, più piccola. Tenendo presente che la luminosità è somma della magnitudine assoluta (ovvero, il valore che la magnitudine avrebbe se la stella si trovasse alla distanza standard di 10 parsec) e della ristretta quantità di radiazione emessa nel visibile (ovvero, come essa appare senza tener conto di fattori quali distanza e assorbimento interstellare), per la legge di Planck la proporzione tra queste due grandezze è fortemente influenzata dalla temperatura, maggiore quando la stella è di minor diametro: ciò, in combinazione con le variazioni di luminosità esibite, porta la luminosità di Mira ad essere maggiore quando la temperatura è alta.

Mira pulsa in quanto ha ormai superato la sua giovinezza; essa ha infatti esaurito la maggior parte del suo combustibile atto a produrre energia, l’idrogeno, che ha portato quindi la stella a dilatarsi fino a diventare una cosiddetta gigante rossa di tipo M7 IIIe, il cui raggio varia tra un minimo di 330 e un massimo di 400 volte quello del nostro Sole: se Mira fosse idealmente al posto del Sole, i suoi strati più esterni si estenderebbero oltre l'orbita di Marte! Pur essendo caratterizzata da una temperatura superficiale piuttosto bassa - solo 2.200 K! - le sue dimensioni sono tali che essa irradia oltre 15 mila volte il Sole! Mira è una gigante rossa tra le più fredde tra le circa 6.000 stelle di questo tipo oggi note, caratteristiche per la loro temperatura variabile che al minimo supera di poco i 2.000 K e i cui strati più esterni oscillano in periodi compresi da 80 giorni a più di 1000 giorni.

La sua variabilità, che è di carattere intrinseco rispetto a quello, ad esempio, che governa le variazioni di luce delle variabili ad eclisse come Algol (β Per), Sheliak (β Lyr) o Almaaz (ε Aur), venne pienamente compresa con i primi passi dell’astrofisica stellare: quando, cioè, fu finalmente chiaro il destino futuro di stelle aventi massa simile a quella del nostro Sole. A tutti gli effetti, possiamo dire con estrema certezza che Mira rappresenta una finestra aperta sul futuro della nostra stella madre. Miliardi di anni fa, infatti, Mira era una stella molto simile al Sole, sia per massa, raggio, temperatura che per luminosità; ad un certo punto, quando le riserve di idrogeno nel suo nucleo - utili per la produzione di energia tramite reazioni termonucleari - finirono, essa si espanse a dismisura divenendo una cosiddetta "gigante rossa": un corpo in realtà non governato da un perfetto equilibrio come accade per il Sole e, generalmente, per tutte le stelle cosiddette “di sequenza principale”. Questo, l’essenziale motivo della sua variabilità, apprezzabile, come visto, anche ad occhio nudo, e che la porta ad essere soggetta quasi ad enorme respiro: un fenomeno durante il quale la sua stessa luminosità varia di ben 1.700 volte tra la minima e la massima magnitudine!

Tale comportamento è, infatti, caratteristico delle stelle di massa solare che, lungo il loro percorso evolutivo, attraversano quella fase chiamata ramo asintotico delle giganti (AGB, in inglese), nome preso dall’area identificata nel famoso diagramma H-R: si tratta di stelle giunte alla fase finale della loro vita, la cui struttura interna è modificata a tal punto da avere non un solo ma ben due aree, disposte l'una sopra l'altra a mo di guscio, entro le quali avviene simultaneamente il bruciamento del combustibile nucleare: in quello più esterno al nucleo, l’idrogeno viene convertito in elio mentre nel vero nucleo della stella l’elio viene convertito in carbonio e ossigeno.

L'efficienza combinata di tali fusioni è tale da produrre una notevole quantità di energia la cui pressione di radiazione porta tali stelle a gonfiarsi a dismisura fino a divenire un vero colosso in grado di riempire uno spazio corrispondente all'orbita di Marte ma, allo stesso tempo, molto rarefatta, specie nelle sue parti più esterne. Durante questa fase, le stelle subiscono consistenti fenomeni di perdita di massa, i quali hanno un ruolo importante nell'arricchimento del mezzo interstellare. Per una stella così grande ma altrettanto poco densa, la perdita di equilibrio tra gravità e pressione di radiazione è conseguente alla sua evoluzione: miliardi di anni fa, Mira nacque come una stella non dissimile dal Sole ma ora è ormai giunta nelle ultime fasi della sua vita. Nel diagramma H-R si trova nel Ramo asintotico delle giganti, in una fase durante la quale brucia idrogeno ed elio in due gusci esterni ad un nucleo degenere composto da carbonio e ossigeno.

Accade spesso in Astronomia che, osservando alcuni oggetti celesti in lunghezze d’onda diverse rispetto a quelle nelle quali hanno il picco di emissione, spesso e volentieri saltano fuori delle sorprese del tutto inaspettate riguardo alle loro caratteristiche fisiche. E così, la gigante rossa Mira Ceti, che a causa delle sua bassa temperatura emette soprattutto nella banda infrarossa dello spettro elettromagnetico, osservata nell’ultravioletto ha rivelato l’inaspettata presenza di una lunghissima coda - da vero record! - di materiale gassoso che la rende, a tutti gli effetti, davvero simile alla classica immagine di una cometa.

A causa di certe particolarità riscontrate nello spettro che si potevano spiegare esclusivamente ammettendo a presenza di una compagna invisibile di una stella molto calda accanto alla fredda gigante rossa: tale sospetto fu dimostrato nel 1923 quando, con l'utilizzo di un telescopio a lenti da ben 90 cm di apertura, venne rilevata una compagna di decima grandezza separata da solo 1" d'arco. Mira B, così come è stata chiamata la compagna di Mira, è circondata da un disco di materiale che quest'ultima estrae dalla compagna gigante; nell'immagine qui di seguito, ripresa dal satellite Chandra, è visibile il disco di accrescimento formato dal materiale riscaldato in caduta sul Mira B ma anche l'emissione X prodotto dal materiale circostante la stessa gigante rossa:


Assieme alla piccolissima compagna - una nana bianca che orbita attorno ad essa in circa 500 anni - Mira solca gli spazi cosmici alla supersonica velocità di 130 chilometri al secondo, quasi il doppio della velocità con la quale il Sole orbita tranquillamente la Galassia! Tale inusuale velocità deriva, forse, da effetti fionda - vere e proprie spinte gravitazionali - ricevute da altre stelle alle quali potrebbe essersi avvicinata in passato. E il fatto di disperdere costantemente materiale gassoso nello spazio, unito alla sua velocissima corsa nelle oscurità del cosmo, è alla base della sorprendente scoperta del Galaxy Evolution Explorer (GALEX), avvenuta ormai qualche anno fa. Si tratta di un telescopio spaziale che possiede un campo visuale estremamente ampio tale da consentirgli di scandagliare ampie porzioni di cielo alla ricerca di fenomeni insoliti e unicamente visibili in questa banda dello spettro elettromagnetico. GALEX ha scansionato il cielo nell’ultravioletto dal 2003 fino allo scorso anno, quando è stato dimesso: inaspettatamente, nelle immagini relative all’area occupata dalla costellazione della Balena era presente una struttura che assomiglia a una cometa con una smisurata coda centrata proprio su Mira, totalmente invisibile nelle frequenze ottiche dello spettro elettromagnetico!

Tenendo conto della distanza della stella, valutata attorno ai 410 anni-luce, e dell’estensione angolare di tale coda, è possibile risalire alla reale grandezza di questa struttura, che risulta incredibilmente allungata per ben 12-13 anni-luce dalla stella madre: nulla di simile è stato visto, finora, attorno ad altre stelle! Per renderci meglio conto di cosa significhi quel valore, potremmo dire che la coda di Mira è estesa per una lunghezza equivalente a tre volte la distanza che separa il Sistema Solare da α Cen - il sistema stellare a noi più vicino - o, in termini a noi più “consoni”, a 20.000 volte la distanza media tra Plutone e il Sole! Osservando con attenzione l’immagine prodotta da GALEX, è possibile notare non solo come Mira sia avvolta in una sorta di “chioma cometaria” formata dal materiale da poco espulso e che ancora ne avvolge la tenue atmosfera (struttura, questa, che potrebbe essere definita come una nebulosa proto-planetaria) ma anche l’onda d’urto - una vera un’onda di prua (in inglese, bow shock) ad essa antecedente - creata dall’accumulo di gas situati nella direzione del suo moto. Non solo: nell'immagine sono ben visibili flussi di materia curvilinei che la stella emette in direzioni diametralmente opposte:


A questo punto, la domanda sorge spontanea: a cosa è dovuta la luminosità di tale gas se Mira ha una temperatura superficiale così bassa, stimata in soli 2.200 K, non sufficiente per “ionizzare” il gas come normalmente avviene nelle nebulose attorno alle calde stelle azzurre? La risposta va cercata nel meccanismo noto come “fluorescenza”: il gas presente nell'onda d'urto è compresso contro le polveri interstellari il che ne aumenta sensibilmente la temperatura, rendendola altissima: i raggi ultravioletti vengono quindi assorbiti dal gas circostante e riemettessi ad una lunghezza d'onda maggiore (e quindi a energia minore) rendendosi, appunto, "fluorescente” nell’ultravioletto. Un fenomeno molto simile a quello che accade nelle comuni lampade fluorescenti. Non è quindi la fredda stella la responsabile della luminescenza della sua coda bensì gli stessi suoi gas, compattati e surriscaldati.

Il materiale gassoso, in fase di allontanamento dalla stella, si attorciglia a formare strutture simili a piccoli vortici, creando la turbolenta scia visibile e simile ad una coda cometaria. Dovendo fare di paragoni con effetti comuni, potremmo dire che tale processo è davvero simile a quanto avviene quando una fende l’acqua producendo una scia increspata dietro di se. Stelle di questo tipo formano, solitamente, quegli splendidi ma effimeri (in termini temporali astronomici!) oggetti chiamati "nebulose planetarie"; molto probabilmente, l'enorme velocità del moto di Mira non permetterà al materiale gassoso espulso dalla stella di restare in un certo senso “fermo” o ancorato ad essa come usualmente accade nelle comuni nebulose planetarie; al contrario, esso verrà spazzato via, come da tempo accade.

La prima immagine qui sotto è quella ripresa dal GALEX a fine 2006 nel lontano ultravioletto; in essa è ben visibile l’onda d’urto prodotta dall’avanzare di Mira, dalla quale dipartono sbuffi di materia biancastra prodotti dall'intenso vento stellare prodotto dalle regioni polari della stella. La seconda immagine mostra la posizione Mira nella costellazione del Mostro marino. La terza immagine è invece una sovrapposizione di quella ottenuta da GALEX nell’ultravioletto (in alto) con un’immagine tratta dalla Digitized Sky Survey nella luce visibile; la porzione di cielo è la stessa. Questo da la misura della sorpresa che colse i ricercatori quando osservarono per la prima volta l'enorme coda fluorescente della stella!

In ogni caso, è quasi spaventoso pensare - tarando il tutto sulla scala temporale umana – che l’enorme quantità di materia formante la sua coda è stata rilasciata dalla stella nel corso degli ultimi 30.000 anni: in altre parole, Mira iniziò a rilasciare il materiale gassoso nello spazio - al ritmo corrispondente alla perdita di una massa terrestre ogni dieci anni - quando sulla Terra si verificò la scomparsa dell’uomo di Neanderthal! L’enorme mole di materiale rilasciato nello spazio è tale che si stima essere sufficiente a formare qualcosa come 3.000 pianeti delle dimensioni della Terra e ben 9 delle dimensioni di Giove e, potessimo osservare la coda di Mira ad occhio nudo, questa si estenderebbe per ben 2° nel cielo ovvero quattro volte il diametro di una Luna piena! Quasi come la scia prodotta da una bacchetta magica, la coda fluorescente rilasciata da Mira, costituita essenzialmente da idrogeno, elio, ossigeno, carbonio ed altri elementi (seppur in percentuali minori), andrà in un lontano futuro a creerà nuove stelle, pianeti e, forse, anche la vita.