mercoledì 26 agosto 2015

LAMBDA ANDROMEDAE: LE PRIME IMMAGINI DI "MACCHIE STELLARI" RILEVATE SU UNA STELLA DIVERSA DAL SOLE

λ And (Lambda Andromedae), di magnitudine apparente 3,8 e situata nella "catena settentrionale" della costellazione, è una stella binaria spettroscopica con un periodo orbitale pari a 20.5212 giorni.


Lo spettro della componente primaria, G8 III-IV, indica che questa è una stella dalla temperatura superficiale prossima ai 4800 K - dalla colorazione giallo-arancione quindi - ma soprattutto evoluta, trovandosi al momento tra le fasi di subgigante e quella di gigante: la sua massa è simile a quella del Sole ma il suo raggio almeno sette volte quello della nostra stella, rispetto alla quale irradia una luminosità intrinseca circa 23 volte maggiore.

Quelle qui visibili sono immagini interferometriche di "macchie stellari" - ovvero, le prime di sempre ottenute su una stella diversa dal Sole - riprese nel 2010 e nel 2011 proprio sulla fotosfera di questa stella lontana 84 anni-luce! Seguendo il transito di tali enormi macchie sulla sua fotosfera è stato possibile determinare il periodo di rotazione della stella nelle due annualità di cui sopra, pari a: P2010 = 60 ± 13 giorni e P2011 = 54.0 ± 7.6 giorni.


Tale periodo coincide, tra l'altro, con quanto esibito nel visuale: la stella in questione è infatti una variabile del tipo "RS CVn", caratteristiche proprio per le loro fotosfere/cromosfere attive sulle quali si sviluppano grandi macchie stellari causano variazioni nella loro luminosità: quella della componente evoluta di λ And varia infatti di 0.225 magnitudini in un periodo di 54,2 giorni. La causa di tale variabilità va ricercata nell'attrito mareale tra le due stelle binarie, così vicine tra loro (distanza media tra le due componenti di appena 0,24 UA) che tale forza viene convertita nell'attività cromosferica effettivamente osservata.

martedì 25 agosto 2015

IK PEGASI: LA (FUTURA) SUPERNOVA PIU' VICINA

Le esplosioni di supernova figurano tra i più violenti eventi che accadono nel Cosmo; per avere solo un’idea della loro potenza, basti pensare che l’energia emessa eguaglia quella irradiata dal Sole durante la sua intera esistenza, senza dimenticare che la luminosità di una stella così morente raggiunge buona parte di quella dell’intera galassia che la ospita!


Quella che apparve il 4 Luglio 1054 nella costellazione del Toro, ad esempio, divenne più luminosa del pianeta Venere e il suo stesso residuo, la “nebulosa del granchio”, è ancora oggi sede di una intensa sorgente di raggi X; tuttavia, essa era parecchio lontana da noi, a circa 6.500 anni-luce, valore che rese illeso il nostro pianeta da ogni possibile conseguenza. Una anonima stella di sesta magnitudine, al limite della percezione visiva ad occhio nudo, situata nella parte nord-occidentale della costellazione di Pegaso è divenuta più o meno nota di recente per essere il candidato supernova più vicino alla Terra; ancor più incredibile, a detonare sarà una piccola nana bianca che però, stando ai modelli, sarà in grado di raggiungere una luminosità assoluta di gran lunga superiore a quella esibita da una qualsiasi supergigante che morirà allo stesso modo: il suo nome, IK Pegasi; la sua distanza: “solo” 150 anni-luce!

Come in tutte le supernovae di tipo Ia che si rispettino, anche IK Pegasi è in realtà un sistema binario. Le componenti sono separate da 31 milioni di chilometri (valore inferiore al raggio dell'orbita di Mercurio) e completano un orbita attorno al comune centro di massa in 21,72168 giorni; tale valore accurato è stato rilevato di recente dal telescopio spaziale Extreme Ultraviolet Explorer ma venne determinato per la prima volta nel lontano 1927 dall'astronomo canadese W. E. Harper.



La componente principale del sistema, IK Peg A, è una stella variabile, motivo per cui nel suo nome figura la caratteristica doppia lettera utilizzata per la nomenclatura di queste particolari stelle. Si tratta di una cosiddetta “cefeide nana”, meglio nota come variabile del tipo “Delta Scuti”, caratteristiche per esibire variazioni luminose non rilevabili ad occhio nudo ma assai frequenti, addirittura 23 volte in un solo giorno! Le variazioni luminose sono indotte da un complicato sistema di pulsazioni: parallelamente a quelle del raggio, la sua superficie così come la sua atmosfera si contraggono e si espandono contemporaneamente, effetto governato da una sorta di meccanismo a “valvola” ciclico. La chiave per comprenderne il funzionamento risiede nello spettro Am della stella, laddove la “m” indica un certo grado di metallicità nella sua atmosfera, che è infatti ricca di elio. Accade che la ionizzazione di questo elemento rende l’atmosfera stellare opaca, la qual cosa assorbe parte della luce irradiata dalla stella; allo stesso tempo, l’energia accumulata apporta un riscaldamento dello stesso elemento che porta la sua atmosfera ad espandersi, rendendosi quindi più trasparente e permettendo alla luce di passarci attraverso. Persa l’energia, l’elio torna a contrarsi per poi riscaldarsi nuovamente, dando vita ad un nuovo ciclo.

Come tutte le variabili pulsanti, anche IK Pegasi A si trova ad un certo stadio della sua evoluzione; abbandonata infatti la sequenza principale, essa transita attualmente nella cosiddetta “fascia di instabilità” prima di divenire una gigante rossa; della qual cosa non c’è da meravigliarsi, dato che tali stelle sono generalmente più grandi e massicce del Sole e, di conseguenza, evolvono velocemente. Tuttavia, anche se IK Peg A non ha la massa necessaria per detonare come una supernova di tipo II sarà, al contrario, la “piccola” compagna a rendersi pericolosa.

Come detto, IK Peg B è una nana bianca, ovvero ciò che resta di una stella di massa piccola/intermedia il cui nucleo ha subito cambiamenti tali da alterarne addirittura lo stato della materia, ora composta da elettroni degeneri. Il fatto che IK Pegasi B si sia trasformata in una nana bianca prima della compagna induce che essa, in passato, era senz’altro più massiccia, molto probabilmente dalle cinque alle otto volte la massa del Sole; con un progenitore di simili proporzioni, il risultato oggi visibile è una nana bianca con una massa stimata 1,15 volte quella del Sole ed un diametro di circa il 60% quello della nostra stella, una delle più massicce e grandi conosciute, tanto che la gravità sviluppata alla sua superficie è ben 900 mila volte quella terrestre!
I sistemi binari composti da una nana bianca strettamente legata ad una stella di grandi dimensioni e bassa densità, portano solitamente ad un unico, inevitabile destino. Allorché infatti IK Peg A esaurirà il combustibile nucleare, seguendo l’evoluzione precedentemente intrapresa dalla compagna, anch’essa si trasformerà in una immensa gigante rossa.

A questo futuro colosso, tuttavia, la nana bianca, grazie alla sua gravità superficiale ben 900 mila volte quella terrestre, inizierà a prelevare materiale gassoso, prevalentemente da idrogeno ed elio; il passaggio di materia tra le due stelle ne provocherà anche la riduzione delle loro rispettive orbite, che porterà i due astri evoluti ad avvicinarsi. Il materiale catturato dalla nana bianca andrà quasi certamente a disporsi in un anello toroidale attorno alla piccola stella; da tale struttura, però, parte del materiale andrà a depositarsi sulla sua superficie, dove verrà compresso e riscaldato ad altissime temperature dalla potente gravità della stella finché la pressione e la temperatura raggiunte saranno sufficienti ad innescare una drammatica catena di reazioni incontrollate che nel giro di pochi istanti ne provocheranno l’accensione di una nova, forse anche ricorrente! Se invece la massa accumulata dalla nana bianca dovesse raggiungere una soglia limite - detta di Chandrasekhar (1,44 M☉), la pressione degli elettroni "degeneri" della nana bianca verrà sopraffatta dalla forza di gravità ed essa andrà incontro ad velocissimo collasso: potrebbe formarsi una stella di neutroni, ma se il suo nucleo sarà allora costituito da carbonio e ossigeno, l'incremento di temperatura e pressione dovuto all'aumento di massa innescherà la fusione del carbonio, fenomeno che porterà l’intera stella a deflagrare in una supernova di tipo Ia!


Per reperire questa stellina di sesta grandezza, è bene considerare la costellazione del Delfino e quindi la vicina 1 Pegasi, subito ad oriente della quale è presente IK Pegasi. A seguito di un simile evento, ciò che in futuro apparirà nella volta stellata sarà senz’altro un vero spettacolo; lecito chiedersi se alla distanza di 150 anni-luce una supernova di tipo Ia potrebbe essere pericolosa per il nostro pianeta e la sua biosfera. La risposta potrebbe essere positiva, poiché le intensissime radiazioni X da essa prodotte indurrebbero la distruzione di una buona parte, se non totale, dello strato di ozono presente nella nostra atmosfera. Non è prevedibile quando tale violentissimo evento accadrà ma certamente il fatto che IK Peg A non evolverà in gigante rossa in un prossimo futuro induce una certa tranquillità.

Ad ogni modo, tenendo anche conto del movimento nello spazio con cui questo sistema doppio si allontana al Sole alla velocità di 20.4 km/s, IK Peg coprirà un anno-luce mediamente ogni 14.700 anni…chi vivrà, vedrà.

domenica 31 maggio 2015

POLARIS AUSTRALIS (aka SIGMA OCTANTIS)

Qual è la stella che indica il polo nord celeste?
Ma certamente la Polare!”, risponderebbero gli appassionati di astronomia dell’emisfero settentrionale e, forse senza difficoltà, anche coloro che ne sono a digiuno; facile risposta, quindi. Ma se la stessa domanda fosse rivolta in merito alla controparte della volta celeste, l’emisfero australe? Beh, quasi certamente la risposta tanto immediata non lo sarebbe di sicuro. Questo perché, al contrario di Polaris, vero nome della “stella polare”, come volgarmente conosciuta, l’emisfero celeste australe manca di un “marcatore” altrettanto luminoso, ragione per la quale riuscire ad individuare, per i neofiti in Astronomia ma non solo, l’esatta posizione del polo celeste sud è compito tutt’altro che facile!



Un abisso quasi insormontabile in luminosità differenzia, infatti, Polaris da Polaris Australis che, diametralmente opposta, è assume il ruolo di “stella polare del sud”. Situata nella costellazione dell’Ottante, una figura molto oscura creata in tempi moderni, è però più conosciuta come Sigma Octantis. Le due stelle distano circa la stessa quantità dai rispettivi poli: Polaris, situata attualmente a 0,74 gradi, Sigma a poco più di un grado.

Tuttavia, a causa della precessione - l’oscillazione dell'asse terrestre lunga 26 mila anni - Polaris si avvicina sempre più al polo nord celeste, che raggiungerà alla distanza minima equivalente a 14” d’arco (un quarto di quarto grado) nel 2105: al contrario, Sigma Octantis si allontana dal polo sud celeste, dopo aver raggiunto la separazione minima di circa 45’ nel 1872.

Nel prossimi 8000 anni, altre stelle si daranno staffetta nel ruolo di Polaris Australis, che avrà come punto di riferimento astri sempre più luminosi: ad esempio, attorno al 5700, la prescelta sarà la stella di terza grandezza Omega Carinae, nel 7900 circa Aspidiske (Iota Carinae), ancora più luminosa essendo di seconda grandezza. Successivamente, attorno al 9100, sarà Delta Carinae, che splende come l’attuale Polaris a mentre il trono d’onore spetterà, attorno all’anno 10600, alla luminosa stella di prima grandezza Regor (Gamma Velorum)…dopodichè, il polo australe tornerà ad essere nuovamente difficile da individuare, fino ad aspettare nuovamente, tra 26000 anni, proprio il ritorno di Sigma Octantis.

Splendendo di magnitudine 5,42 - a metà tra la quinta e sesta grandezza - essa appare ben 25 volte più debole di Polaris, particolare che la rende generalmente di poco interesse. Tuttavia, un analisi approfondita rivela una serie di somiglianze tra le due stelle: le due sono infatti di classe spettrale simile ed anche la luce di entrambe non è fissa, essendo appunto entrambe stelle variabili pulsanti. Mentre lo spettro di Polaris è di tipo F7, Sigma Octantis è di tipo F0, quindi più calda e dalla colorazione bianca; non da meno, mentre Polaris è una variabile pulsante di tipo “Cefeide”, Sigma è di tipo “Delta Scuti”.

Detto questo, le somiglianze tra le due sembrano finire qui: infatti, già relazionando le distanze alle quali le due stelle giacciono da noi - tra i 325 e i 425 anni-luce quella di Polaris, circa 270 anni-luce quella di Sigma - con le loro magnitudini apparenti è facile rendersi conto dell’enorme divario di energia irradiato da queste due stelle: Polaris è infatti una supergigante, dalla luminosità intrinseca ben 2500 volte superiore a quella del Sole mentre Sigma è una sub-gigante, astro dal potere radiante ben più modesto giacché irradia nel cosmo un quantità di luce appena 34 volte il corrispettivo solare; tale valore le conferisce un raggio “solo” 3,7 volte quello della nostra stella. Sigma Octantis, inoltre, ruota su se stessa molto velocemente, in circa 1,5 giorni: si tratta di una stella dalla massa appena il doppio del Sole, che sta per finire le riserve di idrogeno nel nucleo atte alla produzione di energia tramite fusione nucleare; ciò ha indotto Sigma ad espandersi e, di conseguenza, a perdere i suoi equilibri strutturali che si riflettono nelle esili e brevi variazioni di luce osservate.


Le stelle variabili di tipo Delta Scuti sono caratteristiche per le loro variazioni di luce comprese tra pochi centesimi e qualche decimo di magnitudine, variazioni che si svolgono generalmente in più periodi, sovrapposti tra loro ma generalmente corti, inferiori al giorno: a tutti gli effetti, tali variabili sono una sorta di versione “mignon” delle Cefeidi, supergiganti nelle quali le pulsazioni sono di ampiezza luminosa ben più evidente nonché temporalmente più lunghe; allo stesso modo, Sigma Octantis varia di circa 3 decimi di magnitudine ma su un unico ciclo finora rilevato, pari a 2,3 ore.


Questa stella, quasi invisibile ad occhio nudo e quindi insignificante all'apparenza, ha tanto da raccontare su di essa, sui meccanismi che governano le fornaci nucleari che fanno risplendere il cosmo e sui panorami celesti passati, presenti e futuri indotti dai moti del nostro pianeta.

giovedì 14 maggio 2015

LA STRANA MORFOLOGIA DI MESSIER 94

Non esiste immagine astronomica ripresa con una certa risoluzione che non evidenzi particolari di una certa rilevanza tali da porre, spesso e volentieri, nuove problematiche relative a temi già di per se target di studio; nel caso della presente immagine, è la ben nota materia oscura ad essere oggetto di nuove questioni.

Infatti, sebbene le ultime indagini scientifiche sembrano indicare che la materia oscura dovrebbe costituire circa il 90% della materia presente nell'Universo ed essere presente nella massa delle galassie con un valore almeno 400 volte più grande della stima ricavata dalla luce delle stesse "isole cosmiche", il caso della galassia M94 sembrerebbe provare che forse essa non è uniformemente distribuita nel Cosmo come ritenuto.

Messier 94 è una spirale presente nella costellazione dei Cani da Caccia, scoperta da Pierre Méchain nel 1781; alla distanza di “soli” 17 milioni di anni-luce, può essere ritenuta una vicina di casa. E’ il membro più luminoso di un gruppo, che ne prende il nome, contenente alcune galassie minori ad essa gravitazionalmente legate, posto in periferia del cosiddetto del Superammasso della Vergine. solo poche di queste sembrano essere gravitazionalmente legate fra di loro. 

All'interno di questa spirale sembra che la materia oscura non sia presente in quantità "industriali" come invece sembra generalmente accadere per le altre spirali: tenendo in considerazione la curva di rotazione delle stelle della galassia e la densità dell'idrogeno in essa, il gas visibile corrisponde esattamente alla quasi totalità del gas presente nella galassia. Ragione per la quale, questa grande galassia sarebbe formata esclusivamente dalla comune materia barionica.

Messier 94 non apre però questioni solo relativamente alla materia oscura ma anche alla sua morfologia. Nelle riprese si può infatti notare un anello di attive regioni di formazione stellare (dette "starburst"), marcate dalle giovani stelle azzurre, che la dividono bruscamente dal molto meno brillante anello esterno, formato invece da una popolazione stellare giallastra molto più vecchia; stranamente, nelle aree periferiche, tali aree terminano nuovamente in un altro anello di moderata attività di formazione stellare. Certamente un bel rompicapo, dal momento che non si conoscono, al momento, altre spirali dalla morfologia così complessa.


L'immagine sopra presente ne combina altre riprese a più lunghezze d'onda da diversi telescopi: nell'infrarosso da Spitzer, nell'ultravioletto dal Galaxy Evolution Explorer, nel visibile fatte (Sloan Digital Sky Survey) e nel vicino infrarosso (Two Micron All Sky Survey): la parte infrarossa a 3,6 e 4,5 micron, che contrassegna prevalentemente le stelle, è quella che appare in blu/ciano; la luce ad 8 micron, traccia delle poveri fredde, è resa nel verde; infine, quella a 24 micron, indice delle polveri più calde, nel rosso.

Il quadro determinato, il più completo finora ottenuto su Messier 94, indica che ciò che appare come un unico anello ininterrotto situato nelle regioni centrali della grande galassia possa essere in realtà composto due braccia nettamente separate: l'anello interno presenta un elevatissimo ritmo di formazione stellare (generalmente, tali aree possono essere innescate da incontri gravitazionali con altre galassie ma in questo caso potrebbero invece essere state causate proprio dalla forma ovale della galassia); nascosto tra l'anello starburst interno e il braccio ad anello più esterno, invece, è presente il disco striato della galassia che appare con filamenti arcuati di colore verdognolo – come detto, indice delle polveri - disposti lungo stretti archi a spirale.

Al momento, non è provato se la strana morfologia di Messier 94 sia in stretta relazione con la marcata assenza di materia oscura. Un vero mistero.

martedì 12 maggio 2015

I NOMI PROPRI DELLE STELLE: "LIBRA, LIB, LA BILANCIA"

Fra le 31 figure “inanimate” che popolano la volta celeste, una sola appartiene alle dodici costellazioni zodiacali: parliamo ovviamente della costellazione della Bilancia, visibile al meridiano di prima sera a nelle serate di tarda primavera, tra Maggio e Giugno.



Essa preannuncia l’arrivo del vicino Scorpione e proprio all’aracnide celeste è stata sempre legata la storia di questa costellazione; è ben noto, infatti, come presso gli antichi Greci le stelle appartenenti all’odierna Bilancia rappresentassero proprio le chele dello Scorpione, costellazione che all’epoca era quindi molto più estesa. Ad ogni modo, il famoso planisfero di Denderah è il primo documento storico a riportare la figura di una Bilancia in tali stelle: nel periodo compreso tra il 1800 a.C. ed il 100 d.C., infatti, il Sole attraversava il punto equinoziale d’Autunno proprio tra le stelle di questa costellazione, rendendo uguali o, meglio, “bilanciate”, il numero di ore del giorno e della notte. A causa del moto di precessione questo punto si è spostato con i secoli sempre più, tanto che oggi è collocato tra le stelle più occidentali della Vergine.

L’astronomo alessandrino Tolomeo mantenne intatta la tradizionale figura greca delle “chele” dello Scorpione; queste furono considerate tali già dai precedenti Eudosso ed Arato, che le vedevano però come una figura a sé stante, ben distinta dallo Scorpione; tale dissociazione è molto probabilmente dovuta fatto che, allorché si volle associare una figura zodiacale ad ogni mese (dodici in totale, quindi) ci fu una certa difficoltà essendo appena undici quelle tramandate dall’antichità; il problema venne risolto non con l’introdurre una nuova costellazione - tale azione venne eseguita successivamente - bensì dividendo in due figure distinte l’allora enorme costellazione dello Scorpione in quelle dello “Scorpione” e delle “chele dello Scorpione”. Fu Giulio Cesare a mettere fine a tale confusione introducendo finalmente, nel suo nuovo calendario giuliano, la costellazione chiamata Libra, che rappresentava un classico bilanciere che nelle sue idee rappresentava la giustizia Romana.


Successivamente, gli Arabi adottarono dapprima la più figura delle Chele, nella lor tradizione chiamate “Al Zuban” - distinguendole dall’Al Aqrab con cui identificavano lo Scorpione vero e proprio - e successivamente quella della Libra, nota nella loro cultura come “Al Kiffatan” (i nomi propri delle stelle della costellazione fanno riferimento proprio a questi termini). Due piccole curiosità: nella sua opera di cambiare le storiche costellazioni in figure religiose, l’abate Julius Schiller (1627) trasformò la costellazione Bilancia nell’Apostolo Filippo, mentre sull’Uranographia di John Bode (1801) le stelle più meridionali dell’odierna Bilancia andarono a delineare la costellazione del “Tordo Solitario”, che però non ebbe fortuna.

Estesa su 538 gradi quadrati, la costellazione della Bilancia conta in tutto una quindicina di stelle più luminose della quinta grandezza.


Zuben-elgenubi (α Lib)

Il nome di questa stella, così come quello di altre nella stessa area celeste, deriva dall’arabo Al Zuban Al Janubyyah ovvero “la chela meridionale” (dello Scorpione); un altro nome di questa stella è Kiffa Australis, derivato da Al Kiffah Al Janubyyah, ossia “il piatto meridionale” (della Bilancia). Nella tradizione romana, essa era Lanx Australis, ovvero il “piatto meridionale” (della Bilancia). Nell’antica India, essa era nota come “la porta d’ingresso” (allo Scorpione), appellativo dovuto al fatto che Zuben-elgenubi si trova a soli 20’ dall’eclittica.


α Librae è una tra le rare doppie fisiche la cui separazione è al limite della risoluzione ad occhio nudo: 231” d’arco! L’astro principale, α2 Lib, splende di magnitudine 2,9 ed è una subgigante bianca, la stella ha una luminosità intrinseca 25 volte quella del Sole ed un diametro che misura appena il doppio. La compagna, denominata α1 Lib, è di quinta grandezza, ed è una subgigante di tipo spettrale F5, giallognola, con un diametro il doppio di quello del Sole e dalla luminosità intrinseca quasi tre volte maggiore; la distanza reale tra i due astri sembra aggirarsi attorno alle 5400 mila UA! Entrambe le componenti posseggono a loro volta compagna invisibili e rilevate unicamente nel loro spettro; una quinta componente, la variabile KU Lib che, pur lontanissima dalla coppia principale, ne condivide il moto proprio tra le selle di fondo. Zuben-elgenubi è quindi un sistema quintuplo, lontano da noi 65 anni-luce; le cinque stelle, vecchie di “soli” 200 milioni di anni, sembrano far parte della cosiddetta “corrente stellare di Castore”, che comprende altre stelle ben note come la stessa stella dei Gemelli, Fomalhaut, Vega, Alderamin ed altre stelle nate assieme dalla stessa nube.



Zuben-elshemali (β Lib)

Il suo nome proprio è Zuben-elshemali, una moderna corruzione dell’arabo Al Zuban Al Shamalyyah, letteralmente “la chela settentrionale” (dello Scorpione); anche per questa stella, come per Alfa Lib, si trova spesso riportato sui testi un secondo nome, Kiffa Borealis, “il piatto settentrionale” (della Bilancia). Nella tradizione romana, essa era Lanx Borealis ovvero il “piatto settentrionale” (della Bilancia).

Pur essendole stata attribuita dal Bayer la seconda lettera dell’alfabeto greco, l’astro più appariscente della Bilancia è proprio Zuben-elshemali, che splende di magnitudine 2,6. A proposito della sua luminosità, i documenti storici riportano alcune incertezze: l’astronomo greco Eratostene parla di essa come “…la stella più luminosa di tutte…”, riferendosi all’allora “doppia” costellazione dello Scorpione, mentre tre secoli dopo Tolomeo la eguagliò addirittura ad Antares: possibile che questi abbagli siano stati reali? O è forse l’Alfa dello Scorpione che ha incrementato la sua intensità luminosa nel tempo? Nessuno lo sa.

Un altro mistero di Zuben-elshemali riguarda il suo colore; la stella è infatti nota per essere l’unica visibile ad occhio nudo ad esibire una tonalità verdognola. Poiché all'osservazione telescopica essa appare bianca, le evidenti discordanze riportate sono state da alcuni attribuite alla rifrazione atmosferica…spiegazione, questa, di basso profilo e in netto contrasto con il fatto che tra le tante stelle luminose che transitano basse sull’orizzonte Zuben-elshemali è l’unica ad essere descritta di tale tonalità. La temperatura di Zuben-elshemali è poco superiore ai 12000 K e per la legge di Wien - che consente di individuare a quale lunghezza d'onda si ha il picco di emissione radiativa di un corpo nero per una determinata temperatura - la sua massima emissione radiativa cade a cavallo tra l’azzurro e il verde...eppure questa stella appare bianca: io stesso mi sono divertito a stimarne la tinta cromatica numerose volte, ma l’ho vista sempre e solo bianca. Nessun mistero però la avvolge.

In realtà, il Cosmo è intriso di stelle “verdi” ma il fatto che non si riescano a percepire è solo ed esclusivamente dovuto all’occhio umano, in particolare ai “coni” presenti nella retina che sono addetti alla ricezione dei tre colori fondamentali: blu, verde e rosso. Fisiologicamente, il singolo cono percepisce uno ed un solo colore dei tre fondamentali, producendo risposte con una precisa “curva di sensibilità” a seconda del colore cui sono addetti. Stando così le cose, una stella rossa viene percepita tale - senza problemi - perché il contributo dei coni che lavorano nel blu è minimo; idem dicasi per quelle blu, per le quali lavorano quasi esclusivamente i coni addetti alla ricezione del blu. Tenendo però conto che le lunghezze d’onda relative al verde sono comprese tra quelle rosse e quelle blu, allorché viene osservata una stella verde si attivano sia i coni addetti al blu che gli altri addetti al rosso, generando per essa un colore neutro, esattamente il bianco osservato per Zuben-elshemali.



Nessun mistero invece avvolge le sue caratteristiche fisiche: β Librae è una stella di sequenza principale di tipo spettrale B8, bianca quindi, distante 185 anni luce, luminosa almeno 130 volte più del Sole ed dal diametro cinque volte lo stesso.



Zuben-elakrab (γ Lib)

Il nome è di chiara origine araba e si riferisce al termine “Zuben-el-Aqrab” con il quale veniva identificata la generica “chela” Scorpione.


Si tratta di un astro di sequenza principale che splende di quarta grandezza dalla distanza di 152 anni-luce; massa e luminosità intrinseca sono circa 2 e 70 volte maggiori dei corrispettivi solari. 



Zuben-elakrab (δ Lib)

Come per la precedente γ Librae, il nome arabo è riferito ad una “generica” chela dello Scorpione, del quale lo Zuben-elakribi presente in letteratura ne è evidente storpiatura; un’altra denominazione, addirittura di origine akkadica (ca 2000 anni a.C.), è Mulu-izi (“l’uomo di fuoco”), oscuro termine in riferimento ad una delle cosiddette “case lunari” della tradizione mesopotamica.


Nonostante fosse stata catalogata dal Bayer come quarta stella della costellazione per luminosità, splendendo appena di magnitudine 5,41 essa è in realtà appena la dodicesima nel medesimo ordine; la causa di questa apparente “discesa” resta ignota. Si tratta comunque di una luminosa binaria ad eclisse del tipo Algol, che oscilla tra le magnitudini 4,9 e 5,9 in 2 giorni ed 8 ore circa, ciclo fotometrico facilmente osservabile anche con un modesto binocolo. Il sistema dista da noi 300 anni-luce mentre la reale distanza tra le due componenti è di quasi 8 milioni di chilometri.



Zuben-elakrab (η Lib)

Il nome le venne molto probabilmente attribuito causa la sua vicinanza alla già citata γ Librae.


Si tratta di una comune stella di sequenza principale bianca, lontana 147 anni-luce, che splende di magnitudine 5,41, vicina al limite fisiologico della percezione ad occhio nudo.



Brachium (σ Lib)

Nome di origine latina significante "il braccio" o "l'asta" (della Bilancia) anche se spesso a questa stella viene attribuito in letteratura il medesimo nome proprio di α Librae, Zuben-elgenubi, molto probabilmente sia per la sua posizione che per la luminosità; splendendo infatti di magnitudine 3,29, la stella in questione è terza in ordine di luminosità della Bilancia.


Si tratta di una fredda gigante rossa lontana 288 anni-luce e di tipo spettrale M4 cui corrisponde una temperatura superficiale di prossima ai 3000 K; il suo diametro è 110 volte quello solare, mentre la luminosità intrinseca è ben 1900 volte maggiore. Il suo stadio evolutivo è tale che il suo equilibrio idrostatico tra forza di gravità e pressione di radiazione non è più tale da splendere tranquillamente come una comune stella di sequenza principale, presentando oscillazioni luminose tra le magnitudini 3,20 e 3,46 che irregolarmente in periodo grossomodo equivalente a 20 giorni. Piccola curiosità: se qualcuno si fosse chiesto come mai nello Scorpione manchi la stella marcata con la lettera γ, la risposta sta proprio in questa stella, che negli antichi atlanti celesti era indicata proprio come γ Scorpii.

giovedì 7 maggio 2015

MESSIER 82 E LE GALASSIE STARBURST

Nei pressi di Dubhe (α Ursae Majoris), la stella dorata che segna l'angolo nord orientale del Grande Carro e che proprio nelle nottate primaverili si proietta vicina allo zenith, è presente uno dei più famosi oggetti appartenenti al catalogo Messier, l’ottantaduesimo; altrimenti nota come "galassia sigaro" e lontana "solo" 12 milioni di anni-luce, M82 è principalmente nota per essere un ottimo esempio visibile anche con modesti telescopi data la sua elevata luminosità apparente, nonché prototipo, di galassia cosiddetta "starburst".


Una galassia è definita tale quando attraversa una fase di intensa formazione stellare, normalmente situata nella sua regione centrale. Un gran numero di stelle massicce ed ultra-massicce vengono generate a raffica e la loro luminosità è tale da costituire, in alcuni casi, gran parte della luminosità totale della galassia stessa che le ospita. Queste galassie costituiscono quindi veri e propri laboratori per lo studio della formazione e dell'evoluzione delle stelle massicce, degli effetti che queste hanno sul mezzo interstellare e degli importanti processi di arricchimento chimico del mezzo interstellare e intergalattico. Nel caso di M82, questa ha subito gli effetti gravitazionali della sua vicina, la nota M81, lontana "solo" 300 mila anni-luce; tali forze mareali avrebbero deformato la struttura di M82 col risultato che una gran quantità di gas si è riversata nelle sue regioni centrali. Secondo calcoli effettuati con i supercomputers, il più antico incontro fra queste due galassie sembrerebbe essere accaduto 250 milioni di anni fa, causando già allora un forte picco della formazione stellare in entrambe le galassie, come è testimoniato dalla distribuzione e dall'età degli ammassi aperti in esse presenti; l'ultimo di questi episodi ricorrenti risalirebbe invece a circa 4-6 milioni di anni fa, causando la formazione dei superammassi stellari osservati. 

Le aree di intensa formazione stellare di solito si trovano nelle zone centrali delle galassie e possiedono raggi dell'ordine di di 100-1000 pc. Nonostante le dimensioni siano piccole se confrontate con la galassia ospite, la conversione del gas in stelle massicce è effettuata ad una velocità che supera di gran lunga quella relativa al resto della galassia stessa. Lo starburst è alimentato da una copiosa fornitura di gas, principalmente idrogeno molecolare, che è stato accumulato da effetti di marea nel centro della galassia; secondo alcune stime, la quantità di tale gas disponibile in quelle aree è sufficiente a sostenere un tasso di formazione stellare per almeno 10^8 anni. Le polveri associate al gas molecolare assorbono la maggior parte della radiazione prodotta dalle luminosissime stelle li generate, rendere difficile determinare molte delle proprietà fondamentali di tali violenti episodi. Gli starburst più luminosi dell'universo locale avvengono nelle cosiddette "galassie ultra-luminose all'infrarosso", che hanno luminosità bolometriche (ovvero, estese su tutto lo spettro elettromagnetico) di circa 10^12 Lʘ (luminosità solari), energia emessa principalmente nel medio e lontano infrarosso. La fonte di tale alimentazione è profondamente sepolta all'interno di una fitta regione di polveri e gas molecolare dalle dimensioni di poche centinaia di parsec e, con ogni probabilità, consiste in una sorta di combinazione di uno starburst e di un quasar avvolto da polveri; tanto per dare un'idea, la massa di gas molecolare (circa 10^10 Mʘ) è comparabile con l'intera massa di tutto il mezzo interstellare presente in una grande galassia a spirale come la nostra.


Nel collage di immagini sopra, riprese dal telescopio Spaziale Hubble, quella a sinistra mostra dettagli "ravvicinati" di una parte del disco bluastro di M82, in gran parte composta da giovani stelle e calde. In quella centrale, relativa all'area centrale della galassia, innumerevoli stelle giovani e d'età avanzata assieme ad un gran numero di nebulose forniscono all'immagine una tonalità multicolore. Nell'immagine a destra, infine, la presenza di nubi scure di gas e polveri che dal nucleo della galassia si diramano vero l'esterno, per migliaia di anni-luce!

Queste galassie ultra-luminose presentano morfologie fortemente indicative della fusione, ancora in corso o da poco completata, di due grandi galassie. Le strutture morfologiche indicative di fusioni galattiche possono essere lunghe code mareali (come nel caso della coppia di galassie chiamate "le antenne") formate da stelle e gas o anche galassie dal doppio nucleo. Inoltre, le osservazioni suggeriscono che anche lievi interazioni gravitazionali, come il passaggio ravvicinato di due galassie senza la loro successiva fusione, possano comunque indurre episodi di violenta formazione stellare. 

Durante il passaggio ravvicinato di due galassie, gli effetti mareali vanno ad agire perturbando fortemente le orbite delle stelle e del gas presenti nel disco galassia. Mentre del gas va a collidere con altro gas, la dissipazione dell'energia cinetica permette ad esso di muoversi sufficientemente lontano dalle stelle che, altrimenti, lo andrebbero a catturare; tale gas può quindi fluire vero il centro della galassia, dove va ad alimentare uno starburst. Se il passaggio ravvicinato di due galassie è lento e molto vicino, l'attrito dinamico può trasferire l'energia cinetica dalle stelle agli aloni di materia oscura, consentendo quindi alle due galassie a fondersi in una singola galassia. Una volta generatesi le nuove stelle nelle aree starbusrt, solitamente riunite in gruppi chiamate Associazioni OB, queste ionizzano il gas loro circostante, creando regioni H II; queste stelle massicce bruciano il loro combustibile molto violentemente e tanto rapidamente da evolversi in pochi milioni di anni, esplodendo infine come supernovae. Dopo l'esplosione di supernova, il materiale espulso si espande, diventando un resto di supernova; questi resti interagiscono con l'ambiente circostante all'interno dello starburst (il mezzo interstellare).

L’immagine composita presente qui di seguito è stata ottenuta sovrapponendo la ripresa effettuata ai raggi X, ottenuta dal telescopio spaziale Chandra, ad altre nel visuale (Hubble Space Telescope) e nell’infrarosso (Spitzer Space Telescope): ciò che questa ha di straordinario è l'elevato dettaglio delle parti più centrali della galassia, che mostra la presenza di ben due sorgenti di una certa luminosità nei raggi X: l’istantanea in questione ha, con ogni probabilità, catturato due buchi neri di massa intermedia (le due sorgenti X) nell’atto di avvicinarsi pericolosamente (movimento che in realtà è lentissimo) verso il buco nero supermassiccio che si annida nel centro di M82! 

A tutti gli effetti, è la prima immagine che prova l’esistenza di buchi neri - doppio addirittura in questo caso! – con massa superiore a quelli “standard” che non siano posizionati nel centro di una galassia: la prova che tali sorgenti siano proprio buchi neri è fornita dalla variazione temporale della loro emissione X nonché dai loro spettri. Il più vicino al centro galattico di M82 dei due buchi neri in questione si trova ad una distanza di circa 290 anni-luce: la sua massa è stimata essere tra 12.000 e ben 43.000 volte la massa del Sole! Il secondo buco nero si trova a circa 600 anni-luce dal centro galattico e si ritiene che la sua massa sia compresa tra 200 e addirittura 800 volte quella del Sole! Se entrambi siano il prodotto di fusioni stellari, se questi rappresentino gli ex-nuclei di galassie più piccole gravitazionalmente catturate e distorte dall’azione mareale di M82 o se siano entrambe le cose, ciò al momento non è dato saperlo.


Ad ogni modo, una buona parte delle galassie più lontane osservate, come ad esempio quelle presenti nell'Hubble Deep Field, sono proprio galassie starburst ma, essendo troppo lontane, tali aree non possono essere osservate nel dettaglio. Certo è che le galassie starburst sono molto rare nell'universo locale (più recente) mentre sembrano abbondare nell'antico universo, vecchio di alcuni miliardi di anni, molto probabilmente perché all'epoca erano molto più vicine fra loro ed è quindi logico pensare che le interazioni fra galassie fossero molto più comuni.

mercoledì 6 maggio 2015

TRASMUTAZIONI DELLA MATERIA ALLA FINE DELLA VITA DI UNA STELLA

L’esaurimento del combustibile nucleare utilizzabile al fine di produrre energia via fusione termonucleare segna la vita “attiva” delle stelle; le trasformazioni cui, in seguito, viene sottoposto il nucleo di una stella nelle ultimissime fasi della sua evoluzione producono oggetti tra i più affascinanti ed interessanti tra quelli che popolano il Cosmo quali nane bianche, stelle a neutroni e buchi neri. Sebbene le proprietà fisiche di questi non sono state ancora perfettamente comprese, alcune ipotesi sono comunque ampiamente accettate.

Durante il corso della sua vita, una stella resta in costante equilibrio cosiddetto “idrostatico” (in realtà variabile, a seconda del suo grado di evoluzione) tra due forze: quella indotta dalla pressione di radiazione, generata dall’energia che essa produce nel suo nucleo e che irradia dalla sua superficie, e la forza di gravità indotta dalla sua stessa massa che tende, pur lentamente, a farla collassare su se stessa. Parallelamente a questa affermazione, potremmo affermare che l’equilibrio di una stella è costantemente pilotato dalla perdita di energia dalla sua superficie e dalle trasformazioni nucleari di elementi leggeri in elementi pesanti che avvengono nel suo nucleo.


Allorché il combustibile nel nucleo stellare è prossimo all’esaurimento, l’equilibrio tra la produzione e la perdita di energia viene rotto; in queste condizioni, la pressione di radiazione non riesce più a bilanciare la contrazione gravitazionale, che cresce ad elevata velocità nelle regioni centrali: priva di una sorgente di energia, la stella non può più conservare l’equilibrio idrostatico e comincia quindi a contrarsi. Durante la contrazione, la sua temperatura superficiale raggiunge valori elevatissimi (da 50.000 fino a 100.000 K) , valori che portano la stella ad emettere la maggior parte della loro radiazione nell’ultravioletto lontano; le trasformazioni che accadono nelle sue regioni centrali, indotte dal conseguente aumento di pressione e temperatura, permettono l’innesco di fusioni termonucleari tra nuclei atomici sempre più pesanti: infatti, l’energia ora liberata ristabilisce l’equilibrio tra produzione e perdita di energia, ponendo una sorta di “freno” alla contrazione delle regioni centrali, la cui materia è però a questo punto profondamente mutata dal suo normale stato.

Man mano, infatti, che la densità centrale della stella cresce a dismisura a seguito del collasso gravitazionale, si sviluppano condizioni tali per cui la distanza media tra gli atomi diviene paragonabile alle loro stesse dimensioni, uno stato nel quale l’usuale comportamento del gas stellare risulta profondamente alterato: in una stella normale, cosiddetta “di sequenza principale” o comunque non evoluta come il Sole, la “bassa” densità del gas nel nucleo stellare permette agli atomi di disporsi secondo la classica distribuzione detta “di Maxwell”, laddove la temperatura distribuisce le velocità degli atomi stessi e, di conseguenza, i loro continui urti; ma nelle condizioni di densità estrema nelle quali versa un nucleo stellare collassato, gli elettroni - che sono particolarmente mobili data la loro piccola massa - tendono a seguire una differente distribuzione, nota come “di Fermi-Dirac”, dettata dalla meccanica quantistica e non più da una grandezza macroscopica quale la temperatura!


Questo particolare stato della materia - chiamato "degenere" - viene raggiunto a densità tanto più basse quanto più bassa è la temperatura: ad esempio, un gas alla temperatura di 10 milioni di gradi passa dalla condizione di gas "perfetto" a quella degenere quando la sua densità è almeno 1200 volte quella dell'acqua; ad una temperatura di 100 milioni di gradi, si ha degenerazione allorché la densità diviene 40 mila volte quella dell'acqua e per temperature pari ad 1 miliardo di gradi, la degenerazione ha luogo invece avrebbe luogo per densità pari ad 1 milione di volte quella dell'acqua!

Un gas a tale densità è detto quindi “degenere”: il suo stato è tale che riesce ad arrestare la contrazione gravitazionale della stella, ostacolando allo stesso tempo il raggiungimento di condizioni di pressioni e densità ancora maggiori alle quali andrebbero a svilupparsi ulteriori combustioni nucleari; l’energia quindi si libera in grandi quantità quindi senza che si abbia un successivo aumento della pressione, senz’altro una vera efficienza.

La degenerazione del gas spiega quindi come all’interno di stelle morenti si sviluppi una pressione capace, anche in assenza di sorgenti termonucleari di energia, di arrestarne la contrazione: private così anche delle sorgenti gravitazionali di energia, stelle così tramutate tenderanno a raffreddarsi lentamente.


NANE BIANCHE

La pressione di elettroni degeneri è quindi sufficiente contrastare il collasso gravitazionale di stelle collassate con massa inferiore ad un certo limite critico - detto “di Chandrasekhar” - il cui valore si aggira attorno alle 1,44 M☉; la densità di questi oggetti - noti come “nane bianche” - è altissima, compresa tra 1 e 1000 tonnellate per centimetro cubo!

Stelle con massa iniziale fino ad 8 M☉ possono formare nane bianche alla fine della loro evoluzione a patto di perdere una considerevole frazione della loro massa formando le cosiddette “nebulose planetarie”, oggetti celesti tra i meno durevoli, con tempi di vita di appena qualche decina di migliaia di anni, al termine del quale la nebulosa si disperde nel mezzo interstellare, arricchendolo così di elementi sintetizzati durante la fase di combustione dell’elio.

Esistono due classi principali nane bianche: il tipo DA, con inviluppo di idrogeno, e il tipo non-DA, il cui inviluppo non contiene idrogeno ma elio assieme a tracce di elementi pesanti. Si ritiene che gli elettroni degeneri, come detto, producano la pressione e che gli ioni non degeneri costituiscano la massa: di conseguenza, il volume di questi oggetti è inversamente proporzionale alla loro massa. Inoltre, il loro tempo di raffreddamento caratteristico è tanto più breve quanto maggiore è la luminosità, cioè la perdita di energia per radiazione. Nane bianche con luminosità L = 10^-4 L☉, con L☉ luminosità del Sole, hanno un tempo di raffreddamento prossimo al tempo di vita della Galassia (una decina di miliardi di anni).



STELLE A NEUTRONI

Il nucleo collassato di stelle ancor più massicce, quelle che esplodono come supernovae, origina stelle di neutroni o buchi neri; allorché questo è di massa inferiore ad un valore compreso fra 1 e 2,5 M☉, la sua struttura viene sostenuta dalla pressione, in questo caso, di neutroni degeneri, con densità prossime a 1 miliardo di tonnellate per centimetro cubo!

Oggetti di questo tipo sono proprio le stelle a neutroni, molte delle quali sono note per le caratteristiche emissioni alle radiofrequenze, nella banda visuale dello spettro elettromagnetico così come in quella X (pulsars). I primi modelli di stelle a neutroni furono calcolati dai fisici Oppenheimer e Volkoff nel 1939. Il problema principale relativo a questi oggetti di alta densità è l'equazione di stato, che deve descrivere il comportamento di materia degenere estremamente densa.

La composizione della materia che costituisce una stella di neutroni include protoni e nuclei in struttura reticolare, elettroni in numero sufficiente per conservare la neutralità e neutroni liberi. Aumentando la densità (ρ), aumentano i neutroni liberi e cresce quindi la pressione neutronica, finché essa diviene confrontabile con quella elettronica. Quando ρ < 2,4 × 1014 g/cm^3 i nuclei si toccano, si fondono e danno origine a una mistura fluida di neutroni, elettroni e protoni. A densità ancora maggiori inizia il predominio dei cosiddetti “iperoni”, particelle altamente instabili formate, come protone e il neutrone, da tre quark (particelle elementari che si ritengono non ulteriormente divisibili). La densità massima raggiunta è di 2 × 1015 g/cm^3; in queste condizioni, il raggio tipico è dell'ordine dei 10 km.



BUCHI NERI

Infine, stelle che alla fine della loro evoluzione sviluppano nuclei di massa ancora maggiore collassano formando buchi neri.

La teoria della relatività generale di Einstein, a differenza di quella della gravitazione di Newton, ha importanti conseguenze prevedendo l'esistenza di oggetti gravitazionali collassati - i buchi neri appunto - e la possibilità di radiazione gravitazionale da distribuzioni di massa che variano nel tempo. Il ricorso alla relatività generale diviene necessario quando si considerano masse paragonabili ad un valore critico - il cosiddetto “raggio di Schwarzschild”, definito come rg = 2GM/c^2, dove G è la costante gravitazionale, M la massa e c la velocità della luce): come quasi sempre accade per i corpi celesti, il raggio di Schwarzschild è troppo piccolo perché le correzioni alla fisica classica dovute ad effetti relativistici siano importanti: in altre parole, con la massa del Sole si formerebbe un impossibile buco nero di circa 3 km, ovvero un milionesimo del suo raggio.

Diverso è il caso dei buchi neri dove si ha a che fare con materia divenuta talmente compatta tale che non è più possibile stabilire per questi una configurazione stabile. Un buco nero può essere definito come un oggetto di massa M confinata entro una regione il cui orizzonte degli eventi ha come raggio proprio quello di Schwarzschild: ogni cosa all'interno di questo orizzonte è attratta verso il buco nero, inclusa la luce. Un buco nero è quindi un corpo che assorbe perfettamente la luce; solo il suo campo gravitazionale è osservabile dall'esterno; ogni altra informazione è del tutto inaccessibile.

Il modo migliore per osservarne uno è perciò quello di cercarne gli effetti su stelle o gas vicini. Si ritiene che potrebbero esserci molti buchi neri prodotti dall'evoluzione di stelle massicce nella Via Lattea. Di questi, alcuni sono sicuramente membri di sistemi binari (la sorgente Cygnus X-1 è tra i più famosi esempi di questo tipo) e possono essere identificati dalla loro interazione con la stella compagna. Buchi neri giganteschi si possono formare al centro di ammassi popolosi o galassie come risultato di collisione stellari e coalescenza e processi simili darebbero origine nei nuclei galattici a buchi neri con masse fino a centinaia di milioni di volte quella del Sole!


giovedì 30 aprile 2015

LA NEBULOSE "DI GUM" E "DELLE VELE"

Negli ultimi anni, l’evoluzione della tecnologia di ripresa ed elaborazione delle immagini riprese con i grandi telescopi, solitamente effettuate a più frequenze nello spettro elettromagnetico oltre a quella prettamente visuale, sta fornendo risultati a dir poco sbalorditivi. In questo ambito, le galassie a spirale, soprattutto quelle vicine, iniziano a rivelare più che distintamente i milioni o meglio, i miliardi, di stelle che popolano le loro bellissime braccia a spirale, laddove fanno anche presenza numerose chiazze - le cosiddette regioni HII - fanno bella presenza grazie al loro colore tipicamente purpureo, importanti indicatori della presenza delle stesse braccia a spirale e che assumono le forme più diverse.



Si tratta di vaste aree gassose, principalmente composte da idrogeno, la maggior parte delle quali risplendono per incandescenza laddove vi è la presenza di stelle estremamente calde - per intenderci, quelle appartenenti ai tipi spettrali O e B - le cui immani radiazioni ultraviolette rilasciate nello spazio vanno a spogliare gli atomi di idrogeno del gas dei loro elettroni; questo gas, che risulta quindi ionizzato, brilla a diverse frequenze ma in particolare quella a 6563 Angstrom, caratteristica per il suo colore rossastro, è proprio quella che “marchia” cromaticamente queste vaste nebulose diffuse. Sempre nelle braccia a spirale, ma anche nelle più piccole galassie dalla forma tipicamente irregolare, si scorgono poi altre nebulose caratteristiche per la loro forma a “bolla”: si tratta dei cosiddetti “resti giovani di supernova”, ovvero ciò che resta di stelle vissute in un lontano passato e che hanno concluso la loro esistenza in maniera catastrofica: immani deflagrazioni che hanno rilasciato nel Cosmo queste bolle di gas in espansione, intrise, tra l’altro, di quegli elementi “pesanti” creati proprio dalle supernovae.

Il complesso nebulare comprendente la nebulosa di Gum ripreso da Axel Mellinger in luce H-Alpha

Nella parte della Via Lattea ad oggi meglio studiata e a noi più vicina - il cosiddetto “braccio di Orione”, nel quale è immerso anche il Sistema Solare - è presente una di queste aree nebulari che sembra quasi allungare le sue propaggini più esterne proprio nella nostra direzione. Si tratta di un oggetto vicino, con il centro posto a circa 1470 anni-luce da noi; ma la cosa più sorprendente e allo stesso tempo inverosimile è che questa nebulosa, nonostante le sue notevoli dimensioni che ne fanno una delle più grandi strutture di questo tipo che popolano il disco galattico, non solo risulta del tutto invisibile ad occhio nudo ma, fino a poco tempo fa, se ne ignorava del tutto l’esistenza, giacché venne individuata solo negli anni ’50 del secolo scorso da un giovane astronomo australiano, Colin Gum. Al fine di completare la sua tesi di dottorato, uno studio effettuato proprio sulla distribuzione del gas ionizzato nella riga H-Alfa dell’idrogeno ionizzato (H II) nella caratteristica "luce rossa" a 6563 Angstrom delle nebulose diffuse, Gum riprese la Via Lattea australe con una camera Schmidt da 100 mm di diametro all'osservatorio di Mount Stromlo.

La mappatura della nostra galassia viene fatta proprio stimando la disposizione e le distanze di tali regioni HII, che hanno quindi una priorità chiave nello studio della struttura e dell’evoluzione della Via Lattea; il modo migliore per l'individuazione di tali nebulose è quello di utilizzare un filtro speciale che scherma tutta la luce del campo ripreso tranne quella emessa nella riga H-Alfa dell’idrogeno: le immagini così riprese vengono quindi confrontate con altre del medesimo campo ma riprese in luce visibile e laddove si rendono visibili differenze, queste sono indotte da forti sorgenti che emettono proprio in quella caratteristica riga ovvero proprio le nebulose diffuse.

Con i risultati così ottenuti tramite queste foto a largo campo, nel 1955 Gum pubblicò l'omonimo catalogo che contava ben 84 nebulose e complessi nebulari, molte delle quali prima sconosciute e da lui stesso scoperte. Tra questi nuovi oggetti, ve ne era uno - denominata Gum 12, ovvero dodicesimo della lista - che si presentava davvero al di fuori della norma: una enorme, gigantesca nebulosa estesa per oltre 30° che si stagliava sulle costellazioni delle Vele e della Poppa, coprendole nella loro interezza: mai prima di allora una simile struttura di tali proporzioni era stata osservata nella nostra galassia! Per avere un’idea delle sue dimensioni che tanto scalpore fecero, se i nostri occhi fossero capaci di isolare la rossa radiazione che la nebulosa emette, essa apparirebbe estesa su oltre metà del campo della nostra vista!


Le dimensioni e l’aspetto di questa vasta nebulosa suggerirono che potesse essere un resto di una supernova, esplosa a breve distanza dal Sistema Solare ma in un epoca assai remota, sicuramente diversi millenni addietro; tale ipotesi, formulata dallo stesso Gum, venne presto suffragata dal fatto che la cosiddetta nebulosa delle Vele (Gum 16), all’epoca già nota e dallo stesso astronomo inclusa nel suo catalogo, si proiettava nei pressi del cuore della nebulosa da lui individuata, pur in una posizione lievemente eccentrica rispetto al suo reale centro geometrico: e proprio la nebulosa delle Vele era da tempo sospettata essere essa stessa un antico residuo di supernova!

La lentezza con cui si muovevano nel Cosmo i suoi filamenti gassosi e la loro diluizione rendevano però pressoché impossibile sia il calcolo dell’età che identificarne l’eventuale residuo centrale. La scoperta di Gum indusse comunque ad intensificare gli sforzi e, in breve tempo, radioastronomi australiani riuscirono ad identificare a poca distanza dall'area centrale di tale nebulosa una stella di neutroni, la pulsar PSR0833-45, dal periodo di rotazione pari a 89 millisecondi (!), valore record per l'epoca in quanto relativamente lungo per una stella di quel tipo: da questo, ad ogni modo, fu possibile risalire all’epoca della nascita di tale pulsar e, di conseguenza, all’esplosione della supernova che diede vita ad essa e alla nebulosa stessa: evento che venne posto tra 11.000 e 12.000 anni fa. In epoca priva di documenti scritti, quella preistorica, per un evento di simile portata che venne senza dubbio osservato dall'uomo dell'epoca: tenendo infatti conto della distanza, valutata in circa 800 anni-luce, la supernova delle Vele dovette raggiungere una magnitudine apparente pari a -9, rendendosi perfettamente visibile anche in pieno giorno e splendendo almeno un centinaio di volte più delle successive (e purtroppo assai rare!) supernovae apparse in epoca storica. Nel 1977, un altro gruppo di astronomi australiani, utilizzando il telescopio Anglo-Australiano da 3,9 metri di diametro cui venne affiancato un otturatore estremamente rapido, riuscì a dopo una lunga ricerca a rilevare una debolissima stella di ventiquattresima magnitudine che emetteva impulsi luminosi con lo stesso periodo osservato nelle onde radio: per la prima volta, seconda in assoluto dopo quella osservata nella famosa "nebulosa del Granchio", anche la pulsar delle Vele si rese finalmente visibile nella sua controparte ottica!

L’aspetto sfilacciato e la tenue luminosità della nebulosa delle Vele sono sicuramente indice della sua antichità, concetto confermato anche ad altre lunghezze d’onda quali le onde radio, nelle quali tale nebulosa appare frammentata e disomogenea, ben diversa dall’aspetto grosso modo circolare e ben definito dei resti di supernovae più recenti sparsi nella Via Lattea e in altre galassie: nel caso del residuo delle Vele, infatti, il mezzo interstellare ad essa circostante ha avuto lungo tempo a disposizione per agire sull’involucro gassoso in espansione, rallentandolo fin quasi a fermarlo o, comunque, provocandone le deformazioni e le frammentazioni osservate laddove la distribuzione del mezzo interstellare stesso è disomogenea. Anche nella banda spettrale X, la nebulosa rivela un simile andamento: il massimo di emissione si ha infatti in corrispondenza della pulsar centrale, che appare come una sorgente molto intensa, situata quasi al centro della nebulosa, mentre altre zone di comunque dalla luminosità X notevole sono sparpagliate all'interno del resto di supernova.

Come già accennavamo prima, la distanza media della nebulosa di Gum (così come questo vasto complesso gassoso venne denominato per onorare la scomparsa del suo scopritore, morto prematuramente a soli 36 anni in un banale incidente di sci) è pari 1470 anni luce ma essa spinge le sue propaggini più vicine nella nostra direzione inglobando la stessa nebulosa delle Vele.

Osservandone la distribuzione in termini di profondità spaziale, la sua reale estensione coincide grossomodo con lo spazio compreso tra due stelle intrinsecamente estreme per mass e luminosità: Regor (γ2 Vel) e Naos (ζ Pup); proprio per questo motivo, venne ipotizzato che l'immensa nebulosa di Gum potesse essere in realtà un'antica sfera di Strömgren, una di quelle bolle di idrogeno ionizzato localizzate attorno a caldissime stelle di O o B esattamente come le due sopra citate: astri, cioè, la cui intensissima radiazione induce la luminescenza del gas, sospinto radialmente in direzione esterna ad esse sia dalla medesima radiazione che dagli intensi venti stellari da esse propaganti. Secondo altre ipotesi più recenti, la nebulosa di Gum sarebbe invece, così come quella delle Vele, un resto di supernova che però sarebbe esplosa molto tempo prima ma la cui luminescenza sarebbe ancora una volta attribuibile ancora una volta alle due massicce stelle azzurre sopra accennate.

Regor (γ2 Vel)

Naos (ζ Pup)

Esistono indizi che potrebbero fornire una prova definitiva sulla sua origine?
A tal fine, una assai probabile risposta arriva dal contesto galattico in cui essa è immersa; nei pressi della nube è infatti presente l’associazione Vela OB2. Si tratta di gruppi che possono contenere da poche unità fino a centinaia di stelle giovani, calde e massicce dei primissimi tipi spettrali (da cui il nome). A tale associazione appartiene proprio Regor - apparentemente non lontana al centro della vasta nebulosa - che è un complesso sistema costituito da almeno sei stelle le più importanti delle quali sono una Wolf-Rayet, la più vicina stella di questo tipo a noi, ed una supergigante O legate gravitazionalmente tra loro. Anche Naos è una supergigante di tipo O, ma ha la peculiarità di essere nata in un'altra zona, precisamente nell'ammasso stellare Trumpler 10; questo è stato possibile dedurlo retrocedendo di tempo e direzione il suo elevato moto proprio che la rende questa stella estrema una cosiddetta "fuggitiva": lontana circa 1090 anni-luce da noi, Naos è "ora" situata nella parte della nebulosa di Gum a noi rivolta.

Detto questo, mettendo in relazione l'origine della nebulosa con l'attuale posizione di Naos, una teoria che salta fuori da tale quadro descrive che la nebulosa di Gum sia stata creata dall'esplosione di una passata compagna di Naos; scomparendo di colpo, a seguito del catastrofico evento, il centro di gravità cui la sua orbita era legata, essa partì letteralmente “per la tangente” ad altissima velocità, quella ancora oggi osservata. Tra l'altro, è stato notato che i bordi dell’immensa nebulosa di Gum si espandono in modo differente fra di loro: la parte rivolta verso il Sole sembra infatti avvicinarsi più velocemente rispetto a quella che, al lato diametralmente opposto, se ne allontana, quest'ultima probabilmente ostacolata dalla presenza del cosiddetto “Vela molecular ridge”, un altro vasto complesso di nubi molecolari giganti situate oltre la nebulosa.

Come detto, gli eventi che generarono la nebulosa di Gum avrebbero avuto luogo molto molto prima di quelli della supernova che produsse la più vicina nebulosa delle Vele: da 1 a ben 6 milioni di anni fa! Gli strati gassosi espulsi in quello scoppio così temporalmente lontano continuano ad espandersi ancora oggi, pur a bassissima velocità, stimata sul migliaio o poche centinaia di chilometri al secondo. Ciò è comunque sufficiente a provocare una certa compressione del mezzo interstellare circostante e il susseguente riscaldamento del gas che va ad impattarci sopra, generando le emissioni X e UV osservate; nella regione delle onde d’urto vengono compresse anche le linee di forza del campo magnetico interstellare, la cui intensità viene enormemente aumentata; in questo contesto, gli elettroni presenti nel gas in espansione vengono accelerati dal campo magnetico, emettendo una certa radiazione - detta “di sincrotrone” - effettivamente osservata nelle onde radio.

Fino ad oggi, le ricerche radio condotte in quell'area celeste non sono riuscire a scovare la stella di neutroni che sarebbe dovuta rimanere come residuo di questa antica esplosione, la qual cosa porta a supporre che la stella esplosa come supernova che ha generato la nebulosa di Gum ha forse prodotto qualcosa di molto più esotico ma allo stesso invisibile e spaventoso: un buco nero. Forse il più vicino al Sistema Solare? Nessuno lo sa.

Osservando il cielo australe nella direzione delle costellazioni delle Vele e della Poppa, pur non vedendoli ad occhio nudo, siamo certi che il nostro sguardo punta verso aree che in lontanissime epoche passate hanno visto accendersi più volte stelle giunte alla fine della loro agonia i cui residui, oggi osservati, vanno addirittura a sovrapporsi, quasi abbracciandosi a ricordo di quegli eventi. Certo è che, che tutto l'enorme involucro gassoso della nebulosa di Gum, oggi in una avanzatissima fase evolutiva, è destinato a raffreddarsi progressivamente, diluendosi completamente nel mezzo interstellare circostante fino a scomparire per sempre nel giro di qualche milione di anni.

La Via Lattea australe e la nebulosa di Gum; notare le dimensioni comparate con la nota costellazione di Orione, visibile in alto a destra (foto: Juan Carlos Casado)