Il vasto mondo delle
stelle variabili è quanto mai affascinante a causa delle numerose
tipologie di curve di luce che tali astri esibiscono; disegni che,
messi in relazione alle caratteristiche spettrali e ad altre
grandezze intrinseche quali diametri, luminosità o parametri
orbitali (nel caso di componenti binarie in eclisse) riescono spesso
a fornire quadri abbastanza indicativi di quanto, a distanze davvero
inimmaginabili per l’umana mente - a volte, anche dell’ordine di
migliaia di anni luce - accade. La strada per arrivare alla piena
comprensione di tali scenari è spesso densa di misteri che però, a
volte, vengono svelati grazie all’apporto delle moderne tecnologie
applicate agli strumenti dediti all’osservazione astronomica. Uno
di questi riguarda la recente risoluzione di un enigma che da quasi
due secoli avvolgeva una tra le tante stelle di terza grandezza
presenti nel firmamento: ε Aurigae. Partiamo prima, però,
per un breve excursus storico/nozionistico lungo i passi che hanno
fatto luce su questa che è tra le più importanti e singolari
variabili ad eclisse conosciute.
Innanzitutto, Almaaz è il nome proprio di ε Aurigae, che trae origine dall'arabo al-mācz ("il capretto"), secondo la classica rappresentazione che gli antichi arabi ereditarono dalla tradizione greco-romana; tale stella, infatti, con le vicine ζ, η Aurigae delinea un singolare triangolo stellare non lontano dalla luminosissima Capella (α Aurigae), nelle quali la tradizione greca vedeva tre piccole caprette venute appena alla luce e vicine alla loro madre (Capella); tale quartetto che era tenuto in bracci da un personaggio che la tradizione greca identificava nel mitico Erittonio.
Sebbene la stella sia facilmente visibile ad occhio nudo, le variazioni della luce di ε Aurigae vennero individuate per la prima volta nel 1821 dall’astronomo tedesco Johann Fritsch. Ulteriori osservazioni, effettuate tra il 1842 e il 1848 ad opera di altri due astronomi tedeschi, Eduard Heis e Friedrich Wilhelm Argelander, evidenziarono come, a partire dal 1847, la luminosità apparente di ε Aurigae iniziò ad abbassarsi significativamente fino alla magnitudine 3,8; poco meno di due anni più tardi, la stella tornò a risalire, stabilizzandosi alla terza grandezza.
Tele bizzarro comportamento attirò su di essa l’attenzione della comunità scientifica del tempo; di conseguenza, vennero ottenuti numerosi dati osservativi dai quali si evidenziò come la stella, oltre a subire variazioni di luce di un lungo periodo, ne mostrava altre di breve termine e di minor entità. Le successive variazioni di luce si verificarono tra il 1874 e il 1875 e, nuovamente, quasi trent'anni dopo, tra il 1901 e il 1902. Quindi nel 1928, 1955 e 1982, fino all'ultima avvenuta nel 2009.
A seguito di studi dettagliati, l’astronomo tedesco Hans Ludendorff, direttore dell'osservatorio di Postdam, pubblicò nel 1904 un articolo sul Astronomische Nachrichten dal nome “Untersuchungen über den Lichtwechsel von ε Aurigae” (Indagini sui cambiamenti di luce di ε Aurigae) nel quale, per la prima volta, veniva suggerito come la stella fosse una variabile ad eclisse del tipo Algol. Nel suo modello, le variazioni di lungo periodo derivavano da mutue eclissi da parte di due stelle componenti il sistema mentre quelle a breve termine erano indotte dal trasferimento di materiale gassoso da una all'altra delle due componenti. Ludendorff suggerì che il periodo orbitale fosse pari a poco più di 54 anni e 3 mesi e che il periodo in cui i minimi osservati si presentavano (27,12 anni) derivasse dalla separazione delle stesse; la visione di Ludendorff non era lontana dalla realtà, poiché il periodo orbitale oggi riconosciuto è pari a 27,12 anni, uno tra i più lunghi noti tra le variabili ad eclisse. Anche se chiaramente non poteva ancora saperlo, la sua dichiarazione conclusiva secondo cui ε Aurigae era uno "strano sistema" sarebbe ancora oggi perfetta così come lo era nel 1904!
Dall'epoca della sua scoperta, la stella dell’Auriga divenne presto un vero puzzle tanto che alcuni dei più grandi nomi dell'Astronomia hanno cercato di farvi luce. Uno dei problemi principali, ad esempio, era il fatto che, sebbene l'eclisse mostrasse un minimo piatto - tipico delle eclissi totali (per 370 giorni, la luce resta pressoché costante al minimo) con un solo spettro - quello di una stella di tipo F - lo spettro dell'altro corpo non compariva mai: cosa che portava a concludere che la stella di tipo F restava completamente occultata dietro un'altra stella più grande e più oscura. Una singolare stranezza quella dello spettro della stella F, che non scompariva mai come invece dovrebbe avvenire quando la stella viene completamente eclissata: questo restava solo indebolito, come se la sua luce passasse attraverso una sorta di filtro.
Il primo modello accurato su ε Aurigae venne elaborato nel 1937 dai grandi astronomi visuali Gerard Kuiper, Otto Struve e Bengt Strömgren, tutti e tre membri dello Yerkes Observatory; questo delineava un sistema binario contenente una stella supergigante di tipo F e un’altra così fredda e poco densa tale da essere dagli stessi definita come “semitrasparente”: quest’ultima la diretta responsabile delle eclissi totali apportate alla compagna. Secondo tale modello, la luce della stella F, completamente eclissata, sarebbe però stata diffusa dalla estremamente esile atmosfera della compagna eclissante, allo stesso modo in cui la corona del Sole diffonde la luce proveniente dalla sottostante fotosfera. Nel 1961, l'astrofisica Margherita Hack, a seguito di osservazioni durante l'eclissi del 1955-57, propose che la componente secondaria potesse essere invece stella calda e circondata da un guscio di materiale, diretto responsabile dell'eclissi. L'astronomo americano di origine cinese Su-Shu Huang, delineando in una pubblicazione del 1965 alcuni difetti presenti nel modello precedentemente redatto da Kuiper, Struve e Strömgren propose come soluzione che il misterioso compagno eclissante potesse essere in realtà un esteso e particolarmente denso sistema di dischi di polvere in orbita attorno alla stella, posti quasi di profilo lungo la nostra visuale. Scenario che nel 1971, ad opera dell’astronomo Robert Wilson, venne modificato con l'introduzione di un disco sottile ed inclinato, con tanto di apertura centrale, che andava a sostituire il disco spesso proposto da Huang; tale modello poteva descrivere più facilmente gli effetti osservati delle eclissi, in particolare la veloce risalita e seguente ritorno al minimo osservata a metà delle eclissi.
A partire dal i primi anni ’70 del secolo scorso, tutte le ipotesi sono focalizzate sul modello di un disco sottile; tuttavia, sul sistema di ε Aurigae restano ancora alcune domande senza una chiara riposta: la stella F, componente primaria del sistema, è una supergigante massiccia o una stella del ramo gigante post-asintotica? Qual è il centro del disco eclissante? Questo è inclinato o deformato? E quanto massiccio? In tempi più recenti, precisamente nel 2005, il sistema di ε Aurigae venne osservato nell'ultravioletto dal telescopio spaziale FUSE (Far Ultraviolet Spectroscopic Explorer); dal momento in cui questo sistema stellare non emette energie con valori caratteristici di oggetti esotici come sistemi binari formati da coppie di stelle a neutroni o da buchi neri, venne quindi concluso che l'oggetto caldo presente al centro del disco non poteva essere un residuo stellare di questo tipo quanto una più comune ma calda stella di tipo B5.
La comprensione di questa misteriosa variabile è cresciuta di pari passo al progredire delle tecniche applicate in Astronomia. ε Aurigae è stata osservata in quasi tutte le lunghezze d'onda dello spettro elettromagnetico: essa è nota per essere luminosa nell'infrarosso, nell'ottico e nell'ultravioletto ed anche fotometricamente e spettroscopicamente variabile a molte lunghezze d'onda. La componente primaria è stata risolta utilizzando l'interferometria ottica e si presenta con un diametro apparente pari a 2,2 millesimi di secondo d'arco; le reali dimensioni, tuttavia, sono del tutto indicative in quanto sulla distanza del sistema esiste un margine di incertezza tale da porlo tra i 650 e i 1500 anni luce. Si presume, tuttavia, che la componente primaria sia una stella gigante o supergigante.
Ad oggi, sono due i modelli che spiegano le caratteristiche osservate, l'uno detto "di massa elevata”, l'altro “di massa ridotta”. Nel modello “a massa ridotta”, la componente primaria è una gigante evoluta, attualmente sul cosiddetto ramo asintotico del diagramma HR, dalla massa compresa tra 2 e 4 volte quella del Sole, prospettiva basata su stime di distanza e luminosità che però sono inferiori alla maggior parte delle osservazioni. Più verosimilmente, la componente primaria del sistema, nota come ε Aurigae A, è una gigante di tipo F0 che, trovandosi sul ramo asintotico, esibisce tra l'altro pulsazioni semi regolari osservate nelle variazioni luminose a breve termine; stime sul diametro (pur queste variando considerevolmente a seconda della fonte) ne fanno una stella gigantesca, larga da 140 a 360 volte il diametro del Sole; di conseguenza, la superficie emissiva è talmente vasta che la sua luminosità intrinseca risulta essere ben 38 mila volte quella della nostra stella! Fosse idealmente collocata al posto del Sole, essa ingloberebbe sicuramente l’orbita di Mercurio e, forse, anche quella di Venere.
Ciò che si può dire sulla componente secondaria è che questa emette una quantità di luce relativamente insignificante nel totale emesso dal sistema; studi spettroscopici hanno rilevato come questa abbia una emissione fredda, ad appena 550 K, particolarità che porta a ritenere la secondaria essere per l'appunto il disco polveroso (di cui si accennava già sopra) dal raggio pari a 3,8 UA, che blocca circa il 70% della luce che lo attraversa, consentendo di vedere la luce della stella primaria anche durante le eclissi. Secondo la funzione di massa per tale sistema binario, questa dovrebbe avere una massa non dissimile dalla primaria, cosa che invece diverge dalle osservazioni, laddove essa risulta essere invece una stella di sequenza principale di tipo B che potrebbe anche essere, a sua volta, una binaria spettroscopica, costituita da due - o, forse, addirittura più - stelle di sequenza principale. La secondaria sarebbe quindi una stella di sequenza principale di tipo B5V, situata esattamente al centro del disco e la cui massa, a seconda del modello passerebbe, da un valore di 13 (massa elevata) a 6 (massa ridotta) volte quella del Sole.L'orbita, che risulta essere ben determinata, è inclinata di quasi 90° rispetto alla nostra visuale, con le due componenti tra loro lontane da 35 UA (nel modello a massa elevata) a 18 UA (in quello a massa ridotta).
Le immagini che hanno finalmente permesso chiarire l’enigma di ε Aurigae durante l’ultima eclisse, quella del 2009, sono state ottenute dall’interferometro Michigan Infra-Red Combiner; tale tecnica permette di ottenere elevati poteri risolutivi combinando coerentemente le informazioni che provengono da più osservatori astronomici distanti fra loro da pochi metri fino a migliaia di chilometri: essendo il potere risolutivo risultante proporzionale alla distanza tra gli osservatori stessi, l'interferometria permette quindi di superare i limiti imposti dalle difficoltà tecniche di realizzazione di telescopi a grande apertura e, quindi, molto costosi. Nel caso di ε Aurigae, la luce raccolta da quattro telescopi del CHARA Array della Georgia State University è stata combinata ottenendo così singole immagini con un livello di dettaglio equivalente a quelle che si otterrebbero con un singolo telescopio dallo specchio 100 volte più grande di quello dell’Hubble Space Telescope!
Il risultato è l’immagine più dettagliata finora ottenuta del sistema di ε Aurigae laddove, all’inizio dell’eclisse, è stata ripresa per la prima volta la sagoma dell’ombra prodotta sulla stella dal sottile disco di polveri, precedentemente ipotizzato, che orbita attorno alla stella; questo si trova quasi esattamente di taglio rispetto al piano visuale sul quale giacciono la stella e la Terra: un allineamento assolutamente eccezionale che dà origine ai fenomeni di fluttuazione luminosa osservati, risolto a quasi due secoli dalla scoperta.