martedì 25 novembre 2014

"MIRA CETI, LA STELLA CON LA CODA" / "MIRA CETI, THE STAR WITH THE VERY LONG TAIL"


Accade spesso in Astronomia che, osservando alcuni oggetti celesti in lunghezze d’onda diverse rispetto a quelle nelle quali hanno il picco di emissione, spesso e volentieri saltano fuori delle sorprese del tutto inaspettate riguardo alle loro caratteristiche fisiche. E così, la gigante rossa Mira Ceti, che a causa delle sua bassa temperatura emette soprattutto nella banda infrarossa dello spettro elettromagnetico, osservata nell’ultravioletto ha rivelato l’inaspettata presenza di una lunghissima coda - da vero record! - di materiale gassoso che la rende, a tutti gli effetti, davvero simile alla classica immagine di una cometa.


 Mira Ceti è nota per essere il prototipo di una categoria di variabili pulsanti dalla quale prende il nome. L'anomalo comportamento luminoso della stella venne notato per la prima vota dall’astronomo olandese David Fabricius a cavallo tra il XVI e il XVII secolo anche se forse già l'astronomo greco Ipparco, nel II secolo a.C. si accorse di qualcosa; in ogni caso, a causa del suo bizzarro ed altalenante comportamento, la stella venne chiamata dallo stesso Fabricius “Mira”, in latino “la meravigliosa”. E non è difficile capirne il motivo. Mira fu, infatti, la prima stella variabile ad essere scoperta, seguita qualche anno dopo da Algol (Beta Persei, prototipo delle variabili ad eclisse con orbita vista quasi di taglio) anche se, molto probabilmente, anche quest’ultima venne notata in antichità, quindi ben prima della scoperta avvenuta nel 1670 ad opera dell'italiano Geminiano Montanari.

Potessimo osservare con attenzione la costellazione Cetus (il Mostro marino,  spesso impropriamente chiamata "Balena") comodamente in ogni notte dell'anno e, soprattutto, senza il disturbo del Sole che le transita vicino in primavera, noteremmo la presenza - per un breve periodo non superiore ad un mese! - l'apparizione e, da li a poco, la seguente scomparsa di una stella dalla colorazione tipicamente rossastra che, al massimo della luminosità diviene perfettamente visibile ad occhio nudo, il tutto ripetendosi, ciclicamente, a distanza di 332 giorni: quella stella, situata poco sotto la testa del mostro marino, è proprio Mira.

La sua variabilità, che è di carattere intrinseco rispetto a quello, ad esempio, che governa le variazioni di luce delle variabili ad eclisse come Algol, Beta Lyrae o Epsilon Aurigae, venne pienamente compresa con i primi passi dell’astrofisica stellare: quando, cioè, fu finalmente chiaro il destino futuro di stelle aventi la massa del nostro Sole. A tutti gli effetti, possiamo dire con estrema certezza che Mira rappresenta una finestra aperta sul futuro della nostra stella madre. Miliardi di anni fa, infatti, Mira era una stella molto simile al Sole, sia per massa, raggio, temperatura che per luminosità; ad un certo punto, quando le riserve di idrogeno nel suo nucleo - utili per la produzione di energia tramite reazioni termonucleari - finirono, essa si gonfiò a dismisura diventando una "gigante rossa", un corpo in realtà non governato da un perfetto equilibrio come accade per il Sole e, generalmente, per tutte le stelle cosiddette “di sequenza principale”. Questo, l’essenziale motivo della sua variabilità, apprezzabile, come visto, anche ad occhio nudo, e che la porta ad essere soggetta quasi ad enorme respiro: un fenomeno durante il quale la sua stessa luminosità varia di ben 1700 volte tra la minima e la massima magnitudine!

Tale comportamento è, infatti, caratteristico delle stelle di massa solare che, lungo il loro percorso evolutivo, attraversano quella fase chiamata “ramo asintotico delle giganti” (AGB, in inglese), nome preso dall’area identificata nel famoso diagramma H-R: si tratta di stelle giunte alla fase finale della loro vita, la cui struttura interna è modificata a tal punto da avere non un solo ma ben due aree, disposte l'una sopra l'altra a mo di guscio, entro le quali avviene simultaneamente il bruciamento del combustibile nucleare: in quello più esterno al nucleo, l’idrogeno viene convertito in elio mentre nel vero nucleo della stella l’elio viene convertito in carbonio e ossigeno.

L'efficienza combinata di tali fusioni è tale da produrre una notevole quantità di energia la cui pressione di radiazione porta tali stelle a gonfiarsi a dismisura fino a divenire un vero colosso in grado di riempire uno spazio corrispondente all'orbita di Marte ma, allo stesso tempo, molto rarefatta, specie nelle sue parti più esterne. Durante questa fase, le stelle subiscono consistenti fenomeni di perdita di massa, i quali hanno un ruolo importante nell'arricchimento del mezzo interstellare.
Assieme alla piccolissima compagna, una nana bianca che orbita attorno ad essa in circa 500 anni, Mira solca gli spazi cosmici alla supersonica velocità di 130 km/s, quasi il doppio della velocità con la quale il Sole orbita tranquillamente la Galassia! Tale inusuale velocità deriva, forse, da effetti fionda - vere e proprie spinte gravitazionali - ricevute da altre stelle alle quali potrebbe essersi avvicinata in passato. E il fatto di disperdere costantemente materiale gassoso nello spazio, unito alla sua velocissima corsa nelle oscurità del cosmo, è alla base della sorprendente scoperta del Galaxy Evolution Explorer (GALEX), avvenuta ormai qualche anno fa. Si tratta di un telescopio spaziale che possiede un campo visuale estremamente ampio tale da consentirgli di scandagliare ampie porzioni di cielo alla ricerca di fenomeni insoliti e unicamente visibili in questa banda dello spettro elettromagnetico. GALEX ha scansionato il cielo nell’ultravioletto dal 2003 fino allo scorso anno, quando è stato dimesso: inaspettatamente, nelle immagini relative all’area occupata dalla costellazione della Balena era presente una struttura che assomiglia a una cometa con una smisurata coda centrata proprio su Mira, totalmente invisibile nelle frequenze ottiche dello spettro elettromagnetico!

Tenendo conto della distanza della stella, valutata attorno ai 420 anni-luce, e dell’estensione angolare di tale coda, è possibile risalire alla reale grandezza di questa struttura, che risulta incredibilmente allungata per ben 13 anni-luce dalla stella madre: nulla di simile è stato visto, finora, attorno ad altre stelle! Per renderci meglio conto di cosa significhi quel valore, potremmo dire che la coda di Mira è estesa per una lunghezza equivalente a tre volte la distanza che separa il Sistema Solare da Alpha Centauri - il sistema stellare a noi più vicino - o, in termini a noi più “consoni”, a 20.000 volte la distanza media tra Plutone e il Sole! Osservando con attenzione l’immagine prodotta da GALEX, è possibile notare non solo come Mira sia avvolta in una sorta di “chioma cometaria” formata dal materiale da poco espulso e che ancora ne avvolge la tenue atmosfera (struttura, questa, che potrebbe essere definita come una nebulosa proto-planetaria) ma anche l’onda d’urto creata dall’accumulo di gas situati nella direzione del suo moto. Non solo: nell'immagine sono ben visibili flussi di materia curvilinei che la stella emette in direzioni diametralmente opposte.


 A questo punto, la domanda sorge spontanea: a cosa è dovuta la luminosità di tale gas se Mira ha una temperatura superficiale così bassa, stimata in soli 2200 K, non sufficiente per “ionizzare” il gas come normalmente avviene nelle nebulose attorno alle calde stelle azzurre? La risposta va cercata nel meccanismo noto come “fluorescenza”: il gas presente nell'onda d'urto è compresso contro le polveri interstellari il che ne aumenta sensibilmente la temperatura, rendendola altissima: i raggi ultravioletti vengono quindi assorbiti dal gas circostante e riemettessi ad una lunghezza d'onda maggiore (e quindi a energia minore) rendendosi, appunto, "fluorescente” nell’ultravioletto. Un fenomeno molto simile a quello che accade nelle comuni lampade fluorescenti. Non è quindi la fredda stella la responsabile della luminescenza della sua coda bensì gli stessi suoi gas, compattati e surriscaldati.

Il materiale gassoso, in fase di allontanamento dalla stella, si attorciglia a formare strutture simili a piccoli vortici, creando la turbolenta scia visibile e simile ad una coda cometaria. Dovendo fare di paragoni con effetti comuni, potremmo dire che tale processo è davvero simile a quanto avviene quando una fende l’acqua producendo una scia increspata dietro di se. Stelle di questo tipo formano, solitamente, quegli splendidi ma effimeri (in termini temporali astronomici!) oggetti chiamati "nebulose planetarie"; molto probabilmente, l'enorme velocità del moto di Mira non permetterà al materiale gassoso espulso dalla stella di restare in un certo senso “fermo” o ancorato ad essa come usualmente accade nelle comuni nebulose planetarie; al contrario, esso verrà spazzato via, come da tempo accade.
La prima immagine qui sotto è quella ripresa dal GALEX a fine 2006 nel lontano ultravioletto; in essa è ben visibile l’onda d’urto prodotta dall’avanzare di Mira, dalla quale dipartono sbuffi di materia biancastra prodotti dall'intenso vento stellare prodotto dalle regioni polari della stella. La seconda immagine mostra la posizione Mira nella costellazione del Mostro marino. La terza immagine è invece una sovrapposizione di quella ottenuta da GALEX nell’ultravioletto (in alto) con un’immagine tratta dalla Digitized Sky Survey nella luce visibile; la porzione di cielo è la stessa. Questo da la misura della sorpresa che colse i ricercatori quando osservarono per la prima volta l'enorme coda fluorescente della stella!

In ogni caso, è quasi spaventoso pensare - tarando il tutto sulla scala temporale umana – che l’enorme quantità di materia formante la sua coda è stata rilasciata dalla stella nel corso degli ultimi 30.000 anni: in altre parole, Mira iniziò a rilasciare il materiale gassoso nello spazio - al ritmo corrispondente alla perdita di una massa terrestre ogni dieci anni - quando sulla Terra si verificò la scomparsa dell’uomo di Neanderthal! L’enorme mole di materiale rilasciato nello spazio è tale che si stima essere sufficiente a formare qualcosa come 3000 pianeti delle dimensioni della Terra e ben 9 delle dimensioni di Giove! Quasi come la scia prodotta da una bacchetta magica, la coda fluorescente rilasciata da Mira, costituita essenzialmente da idrogeno, elio, ossigeno, carbonio ed altri elementi (seppur in percentuali minori), andrà in un lontano futuro a creerà nuove stelle, pianeti e, forse, anche la vita.




As it often happens in Astronomy, observing some celestial objects in properly different wavelengths from the ones in which they have the emission peak, completely unexpected surprises about their characteristics jump out. Such as this, the red giant Mira Ceti which, because of its low temperature emits mainly in the infrared band of the electromagnetic spectrum, observed in the ultraviolet has revealed the unexpected presence of a very long tail (a real record!) of gaseous material that makes it, in effect, very similar to the classic image of a comet tail!


 Mira Ceti is known to be the prototype of a class of pulsating variables from which it takes its name. The anomalous behavior of the bright star was noticed for the first time by the Dutch astronomer David Fabricius in between the sixteenth and seventeenth century, though perhaps already the greek astronomer Hipparchus in the second century BC noticed something about it; in any case, because of its bizarre behavior and swinging, the star was called by Fabricius himself "Mira", in Latin "the wonderful one". And it is not difficult to understand why. Mira was, in fact, the first variable star to be discovered, followed a few years later from Algol (Beta Persei, prototype eclipsing variables with orbit seen almost cutting) although the last one was noted in antiquity, so well before its discovery in 1670 by Italian astronomer Geminiano Montanari.

If we could observe carefully the constellation Cetus - the sea monster, often improperly called “the whale" - comfortably in every night of the year and, above all, without the disturbance that passes near the Sun in the spring, we would notice the presence - for a short period of up to a month! – then the appearance and, a little later, the following “death” of a star of such a typical reddish coloration that, at maximum brightness becomes clearly visible to the naked eye. It repeats such a cycle every 332 days: that star, located just below the head of the sea monster, is Mira.

Its variability, which is an intrinsic behavior compared to those ones which control the light variations of eclipsing variable stars as Algol, Beta Lyrae or Epsilon Aurigae, was fully understood with the first steps of stellar astrophysics: precisely, when it was finally clear the future fate of stars of the same mass of our Sun. In effect, we can say with great certainty, that Mira is an open window on our own star’s future: billions of years ago, in fact, Mira was a star very similar to the Sun, both for mass, radius, temperature and intrinsic brightness. At a certain point, when the reserves of hydrogen in its core - useful for the production of energy by thermonuclear reactions - ended, it swelled dramatically becoming a bigger and cooler star called a "red giant": a body that’s lost its perfect equilibrium, as is the case for the Sun and, generally, for all the stars of the so-called “H-R diagram main sequence”. This, the essential reason of its variability, appreciable, as seen even with the naked eye, and that leads it to be subject to almost a huge breath: a phenomenon during which its intrinsic brightness varies a 1,700 times between the minimum and maximum magnitude!


 Such behavior is, in fact, a characteristic of stars of solar mass along their evolutionary path through that phase called "asymptotic giant branch" (AGB), a name taken from the area identified in the famous HR diagram: these are stars at the final stages of their life, whose internal structure is modified having now not only one but two different inner areas, arranged one above the other by way of the shell, within both the burning of the nuclear fuel occurs simultaneously: in the most external shell, the hydrogen is converted into helium while in the real core of the star, which has become degenerated, helium is converted into carbon and oxygen.

The combined efficiency of such fusions is likely to produce a significant amount of energy whose radiation pressure brings these stars to swell dramatically to become a true colossus able to fill a space corresponding to the orbit of Mars but, at the same time, very thin, especially in its outer parts. During this phase, the stars undergo significant phenomena of mass loss, which play an important role in the enrichment of the interstellar medium.

Together with the small companion, a white dwarf that orbits around it in about 500 years, Mira sails across cosmic spaces to supersonic speed of 130 km / s, almost double the rate at which the Sun orbits the Galaxy quietly! This unusual speed comes, perhaps, from effects sling - real gravitational forces - received from other stars which may have been approached in the past.

And the fact of dispersing constantly gaseous material in space, combined with its fast race in the darkness of the cosmos, is the basis of the surprising discovery of the Galaxy Evolution Explorer (GALEX) telescope, which took place a few years ago. It is a space telescope that has an extremely wide field of view which has enabled him to fathom large portions of the sky in search of unusual phenomena and only visible in this band of the electromagnetic spectrum. GALEX has scanned the sky in the ultraviolet from 2003 until last year, when he was discharged: unexpectedly, in the images of the area occupied by the constellation Cetus was a structure that resembles a comet with a huge tail centered precisely on Mira totally invisible in the optical frequencies of the electromagnetic spectrum!

Taking into account the distance of the star, estimated to be approximately 420 light-years, and the angular extension of the tail, it has been possible to determine the real size of this structure, which is incredibly stretched for 13 light-years from the star mother! Nothing similar has been seen, so far, around other stars! To make us more aware of what that value actually is, we could say that Mira's tail is extended for a length equivalent to three times the distance that separates the solar system from Alpha Centauri - the star system closest to us - or, in terms to us more “responsive” to 20,000 times the average distance between Pluto and the Sun! Look carefully at the image produced by GALEX, you may notice not only as Mira is wrapped in a kind of “cometary coma” formed by the material which was recently expelled and that still surrounds the tenuous atmosphere (structure, this, that could be defined as a proto-planetary nebula) but also the shock wave created by the accumulation of gas located in the direction of its motion. Not only: in the image, curvilinear material flows that the star emits in diametrically opposite directions are clearly visible.


 At this point, the question arises: what is due the high temperature of that gas if Mira has a surface temperature so low, estimated at only 2200 K, certainly not enough to "ionize" the gas as normally occurs in the nebulae around the hot blue stars? The answer lies in the mechanism known as "fluorescence": the gas present in the wave shock is compressed against the interstellar dust which increases considerably the temperature, making it extremely high: the ultraviolet rays are then absorbed by the surrounding gas and re-emitted to a longer wavelength (and therefore lower energy) by being, in fact, "fluorescent" in the ultraviolet. A phenomenon very similar to what happens in ordinary fluorescent lamps. So, it is not the cold the star responsible for the luminescence of its tail but the same gas, compacted and overheated.

Leaving  the star, the gaseous material is twisted to form structures similar to small vortices, creating the turbulent wake visible that’s like a comet tail. Having to make comparisons with common effects, we could say that this process is very similar to what happens when one cuts through the water, producing a trail rippled behind him. Stars of this type form, usually, those beautiful but ephemeral (in terms of astronomical time!) objects called "planetary nebulae"; most likely, the enormous velocity of motion of Mira will not allow the gaseous material expelled by the star to stay in a sense "still" or anchored to it as usually happens in the common planetary nebulae; on the contrary, it will be swept away, as by a long time happens.

The first image below was taken by GALEX, late in 2006, in the far ultraviolet; it is clearly visible in the shock wave produced by the advance of Mira, from which branch off puffs of whitish material products produced by the intense stellar wind that leave by the star’s polar regions. The second image shows the location of Mira in the constellation of the sea monster. The third image is an overlay instead of that obtained from GALEX ultraviolet (top) with an image from the Digitized Sky Survey in visible light; the portion of the sky is the same. This gives a measure of surprise that caught the researchers when they observed for the first time the huge tail fluorescent of the star!


In any case, it's almost scary to think - calibrating all on a human timescale - that the huge amount of material forming its tail was released from the star over the last 30,000 years: in other words, Mira began to release the material gas into space - at the rate corresponding to the loss of a land mass every ten years - when on Earth occurred the disappearance of the Neanderthals! The enormous amount of material released into space is estimated to be sufficient to form something like 3000 planets the size of Earth and well 9 the size of Jupiter! Almost like the wake produced by a magic wand, the tail fluorescent released by Mira consists mainly of hydrogen, helium, oxygen, carbon and other elements (albeit in smaller percentages), will go far in the future to create new stars, planets and, perhaps, even life.

lunedì 24 novembre 2014

"UNA STELLA ALLA VOLTA: ANKAA" / "ONE STAR AT A TIME: ANKAA"


L’orizzonte è, per definizione, quella linea che limita la visuale e lungo la quale sembra la Terra sembra toccare la volta celeste. In realtà, "orizzonte" è una parola dal significato ben più vasto e profondo; in tal senso, ho personalmente e sempre inteso l’orizzonte come un vero e proprio muro che limita la visione del proprio universo, quasi come un limite alla propria curiosità e al desiderio di vedere “oltre”. In Astronomia, ad esempio, vi è “l’orizzonte degli eventi”, ma anche “l’orizzonte cosmologico”, così come il “tempo di Planck” che, pur chiamato in modo differente, è a tutti gli effetti un orizzonte oltre il quale, al momento, non riusciamo a vedere nulla: concetti, questi, certamente di non facile approccio visto che riguardano il macro e il micro cosmo. Infine, vi è l’orizzonte astronomico: sicuramente quello col quale possiamo confrontarci, per esperienza diretta, utilizzando i nostri occhi.

Osservando con attenzione il movimento degli astri nel corso delle stagioni non è difficile notare che alcune stelle – così come le costellazioni loro annesse - nel momento del transito al meridiano si rendono visibili per pochissimo tempo, salendo appena al di sopra dell’orizzonte meridionale: fatto, questo, esclusivamente indotto dalla latitudine del luogo di osservazione. Eppure, quelle stelle così poco appariscenti hanno sempre suscitato grande interesse nel sottoscritto, quasi venissero a dire “vieni a cercarci ma sappi che, seppur così basse, anche noi abbiamo molto da dire…siamo parte di costellazioni che si rendono solo in parte visibili dal luogo dal quale contempli la volta celeste…soprattutto, siamo parte dell'emisfero celeste australe”. La fantasia, certamente, non ha limiti. :)

Ebbene, proprio in questi serate di Novembre, potessimo osservare l’orizzonte meridionale verso la mezzanotte al di sotto di un cielo molto terso, noteremmo una stella bassissima su di esso, dal colore oro e assai tremolante a causa delle vibrazioni indotte dagli strati della nostra atmosfera in moto lungo la direzione del suo raggio di luce. Riuscire ad individuarla è senz’altro indice dell’assoluta ottima qualità del cielo; da Trieste, i luogo da cui osservo il cielo, questa stella transita a soli due gradi e mezzo al di sopra dell’orizzonte, compiendo un piccolo arco durante il quale si rende visibile per meno di due ore!



Si tratta di Ankaa (α Phoenicis), la stella più luminosa della costellazione australe della Fenice. Questa non è  certamente una costellazione antica come molte tra quelle più note; la Fenice venne infatti introdotta dai navigatori danesi Pieter Dirkszoon Keyser e Frederick de Houtman e ripresa, successivamente, da Johann Bayer che la inserì nella sua opera “Uranometria”, edita del 1603. Il suo curioso nome proprio deriva dall’arabo النائر الزورق , traslitterato in al-' anqā’, “la fenice", anche se durante il medioevo essa veniva anche chiamata “Nair al-Zaurak”, nome anch’esso di chiara derivazione araba, significante “la luminosa (stella) della barca… figura evidentemente derivata da altre interpretazioni delle stelle situate in quell’area, forse in relazione all’attigua costellazione di Eridano, il fiume celeste.

Splendendo di magnitudine apparente 2,37, Ankaa si pone al 79° posto tra le stelle più luminose visibili nel cielo; potessimo osservarla alta allo zenith, stando nell’emisfero australe, ci accorgeremmo però che la sua la sua presenza nel cielo sarebbe quasi “eclissata” dalla presenza di due astri di prima grandezza vicini ad essa: Achernar (α Eridani) e Fomalhaut (α Piscis Australis).

Tuttavia, la sua luminosità apparente è combinata in quanto essa è in realtà composta da due componenti che orbitano l’una attorno all'altra in poco più di 10 anni; della compagna, tuttavia, si sa ben poco. La temperatura della componente principale, equivalente a 4800 K, è più bassa di quella solare, ragione per la quale la stella appare dalla caratteristica colorazione dorata; il sistema spettrale, K0.5 IIIb corrisponde allo spettro di una stella gigante dalla massa 2,5 volte quella solare, quindi di bassa luminosità assoluta. Precise misure di parallasse indicano che il sistema di Ankaa è lontano 85 anni-luce; in relazione a questo dato, il diametro angolare della componente primaria, ottenuto tramite tecniche interferometriche, stabilisce un valore di 5,25 ± 0,06 millesimi di secondo d’arco: il che equivale ad un raggio circa 15 volte quello del Sole, valore che rientra nella media come per molte altre stelle visibili nel cielo notturno.


Rispetto al Sole, la componente principale di Ankaa si trova in uno stadio evolutivo avanzato in quanto nel suo nucleo è già in corso la fusione di elio in carbonio ed ossigeno; molto probabilmente, nel giro di qualche milione di anni, la stella inizierà a rilasciare nello spazio i suoi strati gassosi esterni che formeranno quindi una nebulosa planetaria, lasciando infine visibile solo il nucleo che, nel frattempo si sarà trasformato in una piccola ma densa nana bianca.

Certamente, non è facile scorgere o individuare questa stella ed altre così basse come essa; ma è tuttavia interessante sapere che quel raggio di luce, seppur debole, che sembra quasi sfidare l'atmosfera tanto da venirne pesantemente indebolito in potenza, ha molto da raccontare sul sistema dal quale proviene, parte di quel cielo australe purtroppo a noi precluso.




The horizon is, by definition, that line that limits the view and along which it seems that the Earth and the sky are touching each one another. In fact, "horizon" is a word meaning far broader and deeper; in this sense, I personally always realized it as a real wall that limits the vision of one’s own universe: in other words, the limit to one’s own curiosity. In Astronomy, for instance, there is the so-called “events horizon”, even the “cosmological horizon” and the “Planck time” as well…the last one, although named differently, is actually a real horizon beyond which, at present time, we cannot "see" nothing: all concepts, of course, not easy to approach as they relate to both the macro and micro-cosmos. Finally, there is the astronomical horizon: surely the one with which we can deal with, from experience, using our own eyes.

By carefully observing the movement of the stars in the course of the seasons it is not difficult to see that some stars - and the relative constellations them “attached” - at the time of the meridian transit, they appear for a very short time, briefly, rising to just above the southern horizon: in fact, this is exclusively induced by the latitude of the observing place. Yet, those stars so little visible have always aroused a really great interest in myself, almost they were saying "come to search for us but be conscious that, even so low, we too have a lot to say; we are part of constellations that are only partially visible from the place by which you contemplate the heavens and, primary, we are part of the celestial southern hemisphere that you so much love. ". Fantasy is limitless indeed :)

Well, in these November nights, if we could observe the southern horizon at midnight under a crystal clear sky, we would notice a star low on the horizon, with a gold color and very shaky because of the vibrations induced by the layers of our atmosphere moving along the direction of its beam of light. Being able to locate it, it is certainly index of the absolute good quality of the sky; from Trieste, my own town, this star passes only two and a half degrees above the southern horizon, making a small arc during which becomes visible for less than two hours!


This star is Ankaa (α Phoenicis), the brightest one in the southern constellation Phoenix. It is certainly not an ancient constellation since it was in fact introduced by Danish explorers Dirkszoon Pieter Keyser and Frederick de Houtman; later, it was resumed by Johann Bayer who inserted it in his work "Uranometria", published in 1603. Its curious name derives from the Arabic النائر الزورق, transliterated in “al- 'anqā'”, "the phoenix", although during the Middle Ages it was also called by the Arabs as well as “Nair al-Zaurak”, a name also clearly meaning "the bright (star) of the boat”...a figure evidently derived from other interpretations of the stars located in that area, possibly related the adjoining constellation Eridanus, the celestial river.

Shining of apparent magnitude 2.37, Ankaa is the 79th among the brightest stars visible in the night sky; if we could observe it high at the zenith being somewhere in the southern hemisphere, we would realize, however, that its presence in the sky would be almost "eclipsed" by two first magnitude stars very close to it: Achernar (α Eridani) and Fomalhaut (α Piscis Australis).

However, its apparent brightness is actually combined since it is composed of two different components that orbit around each other in a little over 10 years; the companion, however, is little known. Regarding the primary, its surface temperature, equivalent to 4800 K, is lower than the solar one, the reason why the star appears by its characteristic golden color; the spectral type K0.5 IIIb corresponds to a giant star but only 2.5 times the Sun mass of low absolute brightness. Precise parallax measurements indicate that the system of Ankaa is 85 years-light far off; relating to such data, the angular diameter of the primary component, obtained by interferometric techniques, establishes a value of 5.25 ± 0.06 milliseconds of arc which is equivalent to a radius about 15 times that of the Sun, value which falls into the media as for many other stars visible in the night sky.

Compared to the Sun, Ankaa is at an advanced stage of development since in its core helium is already burning; most likely, in a few million years, the star will start to leave in its surrounding space its outer gaseous layers that will then form a planetary nebula, leaving visible only the core that, finally in the meantime, it will be transformed into a small but dense white dwarf.


Certainly, it is not easy to see or locate this star and others such low on the horizon like it; but it is nevertheless a great achievement to know that its weak beam of light, which seems to defy the atmosphere much to come heavily weakened in power, has much to say on the system from which it comes, part of that southern sky to us unfortunately precluded.

martedì 18 novembre 2014

"IL DESTINO ULTIMO DEL PIANETA TERRA - pt.2" / "PLANET EARTH ULTIMATE FATE - pt.2"


IL SOLE NEL FUTURO

Stando alla teoria dell'evoluzione stellare, in futuro il Sole evolverà lentamente dallo stadio di nana gialla di media grandezza a quello di una fredda gigante rossa la cui luminosità intrinseca sarà più o meno 1000 volte più intensa di quella attuale. Dopodiché, il colossale Sole del futuro si avvierà, questa volta abbastanza rapidamente, verso il suo decadimento finale allo stadio di nana bianca. Ad ogni modo, le conseguenze per la Terra e per i due pianeti interni alla sua orbita, Mercurio e Venere, saranno in definitiva le stesse: incenerimento e vaporizzazione, ad opera dei gas estremamente caldi e delle radiazioni emesse dal Sole durante quelle ultime fasi della sua vita. Dato che la nostra stella, come tutte d'altronde, non può sfuggire alla propria fine, il Sistema Solare e con esso la Terra svaniranno anch'essi; chi prima, chi dopo, in relazione al verificarsi degli eventi sopra descritti. Stando così le cose, è allora interessante provare a tracciare l'evoluzione del Sole e correlare gli eventi della sua futura esistenza con i cambiamenti che si realizzeranno, di conseguenza, sul nostro pianeta.



Circa 5 miliardi di anni fa, quando la nostra stella era circa il 4% più piccola, il 38% meno luminosa e il 10% più fredda, essa era chimicamente omogenea e la temperatura centrale, di quasi 10 milioni di gradi, sufficientemente alta da fondere quantità stabili di idrogeno (o, se vogliamo, protoni) in elio: un processo il cui fine ultimo era quello, allora come oggi, di impedire un collassamento dell'intera struttura stellare ad opera della forza di gravità. Con il passare del tempo, però, il Sole diventerà chimicamente disomogeneo, in particolare allorché comincerà ad evolvere al fuori della cosiddetta "sequenza principale del diagramma HR", fase che lo porterà a subire i cambiamenti preliminari alla sua ascesa al cosiddetto “ramo delle giganti rosse".

Al momento, tale trasformazione sta avvenendo molto lentamente: il Sole, infatti, continuerà ad esistere come stella "di sequenza principale" per altri 5 miliardi di anni fa; ma nel momento in cui l'idrogeno presente nel suo nucleo si esaurirà, la sua struttura verrà significativamente influenzata dalla differenza tra la composizione chimica del nucleo divenuto di elio e quella delle regioni più esterne composte di idrogeno. Allora il Sole diventerà più grande, più caldo e più luminoso di ora: la sua superficie si manterrà ad una temperatura di circa 6400 K e sarà due volte più luminoso di quanto lo è oggi!

L'effetto di tali cambiamenti sugli organismi viventi presenti sulla Terra sarà certamente drastico: la vita verrà distrutta, a meno che la tecnologia umana non sia in grado da poter mettere in atto delle contromisure per far fronte a queste evenienze. Infatti, a causa dell'aumento delle dimensioni e della temperatura durante la sua evoluzione, l'intensità delle radiazioni ultraviolette solari che raggiungeranno la Terra comincerà ad aumentare sempre più, provocando conseguenze anche irreversibili su ogni forma di vita.

E qui, le ipotesi. Per ovviare questa minaccia, gli scienziati dell’epoca potrebbero servirsi di tecniche atte ad aumentare la densità dello spessore dello strato di ozono nell'atmosfera terrestre, che attualmente assorbe la maggior parte delle radiazioni ultraviolette inviate dal Sole sulla Terra. In ogni caso, non sarà tanto l'aumento delle radiazioni ultraviolette in arrivo sul nostro pianeta quanto la crescente luminosità intrinseca della nostra stella madre a minacciare maggiormente l'esistenza della vita, tanto che essa raddoppierà il suo attuale valore, la temperatura alla superficie del nostro pianeta aumenterà di circa il 25%! Nei giorni più caldi dei mesi estivi in entrambi gli emisferi e durante l'intero anno nelle regioni tropicali, la temperatura raggiungerà infatti, o addirittura supererà, il punto di ebollizione dell'acqua: laghi e fiumi si prosciugheranno o arriveranno al punto di ebollizione e alla fine anche i mari, in alcune zone specifiche, è molto probabile che inizieranno a bollire. Di conseguenza, la pressione dell'atmosfera terrestre aumenterà, stando alle ipotesi di circa il 25%, e dense nubi di acqua circonderanno gran parte della Terra di allora, ormai arida.

Tutto questo accadrà finché gli scienziati gli ingegneri dell'epoca non troveranno il modo di proteggere la Terra dai raggi solari di intensità sempre crescente. Una possibilità potrebbe essere, ad esempio, quella di inviare in orbita attorno alla Terra grandi schermi riflettenti i raggi solari nello spazio; ma oltre a tali riflettori, si potrebbe mandare in orbita anche una serie di superfici assorbenti per catturare le radiazioni solari e ricavarne energia. Infatti, con un'apposita ed opportuna sistemazione di schermi riflettenti e di superficie assorbenti, si dovrebbe, almeno teoricamente, riuscire attentamente a controllare la quantità di radiazione solare che raggiungerà la Terra in modo da tenerne sotto controllo il clima; e, allo stesso tempo, si potrebbero utilizzare vaste quantità di energia solare.

In questo modo, le condizioni sulla Terra si stabilizzerebbero per altri 3,5-4 miliardi di anni ma, a partire da allora, il Sole comincerà a cambiare drasticamente e rapidamente: la sua temperatura si abbasserà sicuramente almeno fino a 4800 K, con la conseguenza che il Sole assumerà una tinta cromatica tendente al rosso-arancione, divenendo allo stesso tempo circa tre volte più grande e luminoso di quanto lo è ora. La temperatura terrestre allora dovrebbe crescere fino al punto in cui gli oceani cominceranno nuovamente a bollire. La situazione dovrebbe restare tale per alcune centinaia di milioni di anni mentre il Sole comincerà a consumare le sue ultime risorse di idrogeno nel suo interno; ma allora, non appena il suo nucleo di elio puro comincerà contrarsi rapidamente liberando grandi quantità di energia gravitazionale, la nostra stella inizierà ad espandersi rapidamente, raffreddandosi e diventando molto più rosso e luminoso: in questo modo, esso diventerà una gigante rossa, fase in cui la sua luminosità intrinseca aumenterà costantemente fino al valore previsto di circa 2.700 volte l'attuale luminosità del Sole. La sua superficie rossa e calda raggiungerà dapprima Mercurio e poi Venere: questi due pianeti, a turno, saranno vaporizzati non appena i gas solari li colpiranno…ciascuno di questi getti vaporosi che una volta costituivano i due pianeti interni all’orbita terrestre si aggiungerà al materiale solare in espansione. Una fine davvero triste.

E la Terra? Quando il Sole passerà alla fase di gigante, la sua luminosità sarà un migliaio di volte maggiore di quella attuale e il suo temperatura centrale raggiungerà i 100 milioni di gradi. Questa sarà sufficientemente alta da innescare la reazione dell'elio triatomico e il Sole si ritroverà allora nell'ultima fase della sua evoluzione, che lo porterà verso uno stato altamente condensato della sua stessa materia: quello di una nana bianca. Non sono ancora ben chiari diversi stadi attraverso i quali il Sole passerà dal suo stato di gigante rossa a quello finale, altamente compresso, ma si sa che prima di raggiungerlo esso dovrà passare attraverso una fase in cui perderà una certa quantità della sua massa disperdendola nello spazio: le sue ultime fasi di vita dipenderanno proprio da come ciò accadrà. Stando ai calcoli finora elaborati, durante questa fase il Sole subirà una perdita di massa equivalente a circa il 33% della sua massa totale, materia che verrà dispersa con il vento solare. Di conseguenza alla perdita di massa della nostra stella, le orbite dei pianeti dovrebbero espandersi, tanto che la distanza orbitale della Terra dovrebbe, almeno teoricamente, aumentare fino ad un massimo del 150% del suo valore attuale ma ad ogni modo dovrebbe interagire con l’atmosfera esterna del colossale Sole di allora per quanto riguarda le maree, cosa che, al contrario di quanto avvenuto fino ad allora, dovrebbe portare il raggio orbitale terrestre a diminuire, portando il nostro pianeta ad essere avviluppato negli strati più esterni della gigante rossa!

Anche se la Terra potrà all'inizio essere protetta con mezzi tecnologici dalle intense radiazioni solari dopo che il Sole avrà lasciato la sequenza principale, essa non potrà sfuggire la distruzione nella fase solare di gigante rossa. A meno che…essa non si allontani “artificialmente” di una certa quantità dalla sua orbita attuale, proprio al fine di non poter essere raggiunta dai gas caldi solari in espansione. Ma è realmente fattibile questa ipotesi che a prima vista pare del tutto fantasiosa? Entriamo allora nella fantascienza che, almeno a volte, si è dimostrata premonitrice di eventi che poi sono realmente accaduti.

In linea di principio, ciò sarebbe fattibile perché tutto quello che la Terra richiederebbe è un'energia orbitale addizionale. In altre parole, se, in un modo o nell'altro, la Terra venisse accelerata sulla sua orbita, essa si allontanerebbe dal Sole andando a disporsi su un'orbita di raggio più grande. Ma se si cercasse di aumentare il raggio dell'orbita terrestre fino al valore desiderato, semplicemente impartendo più velocità alla Terra, si incorrerebbe in problemi di estrema difficoltà tecnica che comunque potrebbero essere semplificati in qualche modo, eliminando alcune difficoltà, usando i capi gravitazionali di Marte, Giove e Saturno per facilitare l'allontanamento della Terra dal Sole. Ma anche con l'aiuto di questi pianeti, si dovrebbe cominciare con incrementare l'energia orbitale terrestre fino a che la Terra non si trovi abbastanza vicino a questi pianeti da poter usare i loro campi gravitazionali per acquisire ulteriore energia.

Se la Terra, ad esempio, si muovesse sulla sua orbita ad una velocità di circa 45 km al secondo, essa sfuggirebbe del tutto al sistema solare vagando nello spazio interstellare, ipotesi che ricorda molto quel che accade per la Luna nella serie Sci-Fi "Spazio 1999". La velocità orbitale terrestre, al momento, è di circa 30 km secondo; stando così le cose, la Terra dovrebbe subire un'accelerazione di altri 15 km al secondo per poter uscire dal Sistema Solare ed allontanarsi dal Sole in espansione. Ma l'energia richiesta per far ciò equivale all'energia totale emessa dal Sole in circa tre mesi, una quantità immensa e proibitiva se si considera che deve essere disponibile in breve tempo! Certamente, questo non avverrà, fortunatamente, che tra miliardi di anni, ovvero quando il genere umano si troverà di fronte un Sole minaccioso; molto prima che esso cominci la sua espansione distruttrice nel gruppo delle giganti, gli scienziati e gli ingegneri, conoscendo quel che accadrà alle riserve terrestri se non si svolge un'azione protettiva su di esse, potrebbero cominciare a facilitare l'uscita della Terra dalla sua orbita incrementando la sua velocità gradualmente fino ad una velocità di circa 49 km al secondo. Se questo avvenisse in un periodo di circa 1,5 milioni di anni, che un tempo brevissimo se rapportato al tempo che il Sole impiega nella sua fase di subgigante, la velocità terrestre non dovrà essere aumentata di più di 1 cm al secondo per ogni anno, ovvero a quantità di energia richiesta in un anno sarebbe la stessa che viene emessa dal Sole in cinque secondi! Benché questa sia ancora una quantità elevatissima di energia, non sarà impossibile reperirla per una civiltà che, almeno si spera, si sarà tecnologicamente evoluta in qualche miliardo di anni!

Su questa quantità è ancora eccessiva, il processo di accelerazione della Terra alla velocità richiesta può essere prolungato per un periodo di 100 milioni di anni, aggiungendo un centesimo di centimetro al secondo ogni anno. Per realizzare questo progetto il genere umano dovrebbe essersi evoluto a tal punto da poter liberare ogni secondo, in maniera esplosiva e dal lato opposto al senso di movimento, una quantità di energia uguale a quella liberata da una bomba all'idrogeno di circa 7,5 tonnellate. Tali esplosioni spingerebbero la Terra fuori dalla sua orbita in maniera tale da aumentare la sua velocità della quantità richiesta. Ciò non sarebbe necessario per tutti i 100 milioni di anni se la Terra potesse essere portata abbastanza vicina a Marte, da poter utilizzare l'attrazione gravitazionale di Marte, e quindi abbastanza vicino a Giove.

Benché questa fuga dal Sistema Solare sembri implicare una possibile ma molto poco realistica tecnica di applicazione energetica è chiaro che questa è l’unica soluzione che dovrà essere attuata per evitare la distruzione della Terra.

Potrebbe, in realtà, essere necessario trasformare la Terra in una grande nave spaziale e farla muovere nuovamente in un'orbita distante intorno al Sole in espansione o allontanarla del tutto dal Sole stesso mandandole in un'orbita intorno ad un'altra stella opportuna, non troppo lontana dal Sistema Solare. Se la Terra dovesse rimanere nel Sistema Solare dopo il Sole sarà diventato quasi 3000 volte più luminoso di ora, essa dovrebbe ruotare su un'orbita 40 o 50 volte più lunga di quella attuale per poter sopravvivere agli intensi raggi solari: un anno terrestri equivarrebbe allora a 350 anni attuali.

Se invece di rimanere nel Sistema Solare la Terra dovesse muoversi fuori nello spazio cercando un altro Sole, gli abitanti dovrebbero avere a disposizione una grande riserva di merce per sopravvivere, il che non sarà un problema comunque in quanto per quell'epoca l'uomo avrà sicuramente imparato (...) ad ottenere quantità di energia pressoché illimitate dalla fusione termonucleare e da sofisticate tecnologie, come la completa annichilazione di materia e antimateria. È anche possibile che l'uomo allora avrà imparato a raccogliere e immagazzinare la maggior parte dell'energia solare ora dispersa nello spazio. Così, speciali installazioni di conversione e deposito di energia dovranno essere predisposte e collocate su corpi come Mercurio, Venere e la Luna, e per altre centinaia di milioni o miliardi di anni si potrà raccogliere abbastanza energia solare da soddisfare bisogni della Terra vagante nello spazio dei suoi abitanti d'altri secoli ancora.




THE SUN IN THE FUTURE

According to the theory of stellar evolution, in the future the Sun will evolve slowly from the stage of a yellow dwarf of medium size to that of a cold red giant whose intrinsic brightness will be roughly 2,700 times more intense than at present. After that, the colossal future Sun will start, this time quite quickly, towards its final decay as a  white dwarf. However, the consequences for the Earth and for the two inner planets within its orbit, Mercury and Venus, will be ultimately the same: incineration and vaporization, both given by the extremely hot gas and the radiation emitted by the Sun during the last stages of his life. Since our star, like all the others in the sky, cannot escape his own end, the Solar System and the Earth will vanish with it too; who first, who later, in relation to the occurrence of the events described above. That being the case, then it is interesting to try tracing the evolution of the Sun and correlate events of his future existence with the changes that will take place, consequently, on our planet.

About 5 billion years ago, when our star was about 4% smaller, 38% less light and 10% colder, it was chemically homogeneous and the central temperature, nearly 10 million degrees, high enough melt stable quantity of hydrogen (or, if you will, protons) into helium, a process whose ultimate aim was, then as now, to prevent a collapse of the entire stellar structure by gravity. With the passage of time, however, the Sun will become chemically inhomogeneous, particularly when it will begin to evolve out of the so-called "main sequence of the HR diagram" phase that will take him to undergo changes prior to his rise to so-called "giant branch red ".

At present, such a transformation is taking place very slowly: the Sun, in fact, is going to continue existing as a "main sequence" star for another 5 billion years now; but in the moment in which the hydrogen in its core will run out, its structure will be significantly affected by the difference between the chemical composition of the nucleus become helium and that of the outer regions composed of hydrogen. Then the Sun will become bigger, hotter and brighter than now: its surface will be maintained at a temperature of about 6400 K and will be twice as bright as it is today!

The effect of such changes on living organisms on the Earth will certainly be drastic: life will be destroyed, unless the human technology will be able to implement some countermeasures to cope with these eventualities. First of all, because of the size and temperature during its evolution, the intensity of solar ultraviolet radiation that will reach the Earth will start to increase more and more, causing irreversible consequences of all life forms.

And here, the assumptions. To overcome this threat, future scientists could use techniques to increase the density of the thickness of the ozone layer in Earth's atmosphere, which currently absorbs most of the ultraviolet radiation sent from the Sun to Earth. In any case, it will not be so much the increase in ultraviolet radiation coming to our planet as the increasing intrinsic brightness of our parent star to threaten further the existence of life, so that when it will double its current value, the temperature at the surface of the our planet will increase by about 25%! The hottest days of the summer months in both hemispheres and throughout the whole year in tropical regions, the temperature will reach, or even exceed, the so-called “boiling point of water”: lakes and rivers will dry up or come to the boiling point and eventually even the seas, in some specific areas, it is very likely that will begin to boil. Consequently, the pressure of the atmosphere will increase, according to the hypotheses of about 25%, and dense clouds of water surround large part of the Earth then, now dry.
All of this will happen until scientists engineers of the time they will not find a way to protect the Earth from the Sun's intensity increasing. One possibility could be, for example, to send into orbit around the Earth large screens reflecting sunlight into space; but in addition to these reflectors, you could send into orbit a series of absorbent surfaces to capture solar radiation and obtain energy. In fact, with a specific and appropriate accommodation of reflective screens and absorbent surface, it should, at least theoretically, be able to carefully control the amount of solar radiation that reaches the Earth so bear under control the climate; and, at the same time, we could use large amount of solar energy.



In this way, the conditions on Earth would stabilize for other 3,5 - 4 billion years; but, since then, the Sun will begin to change dramatically and rapidly: its temperature is lowered definitely at least up to 4800 K, with consequence that the Sun will take a reddish-orange color, becoming at the same time about three times bigger and brighter than it is now. The Earth's temperature should then grow to the point where the oceans will begin to boil again. The situation is expected to remain so for several hundred million years while the Sun will begin to consume his last resources of hydrogen in its interior; but then, as soon as its core of pure helium begins to contract rapidly releasing large amounts of gravitational energy, our star will begin to expand rapidly, cooling and becoming a lot more red and bright: in this way, it will become a red giant phase in which its intrinsic brightness increase steadily until the expected value of about 2,700 times the current brightness of the Sun. Its surface, red and hot, will reach first Mercury and then Venus: these two planets, in turn, will be vaporized as soon as the gas solar them strike ... each of these jets fluffy that once constituted the two inner planets orbit the Earth will add to the expanding solar material. A really sad end indeed!

And the Earth? When the Sun will go down giant phase, its brightness will be a thousand times greater than at present, and its central temperature will reach 100 million degrees. This will be high enough to trigger the reaction of triatomic helium and the Sun will be then at the final stage of its development, which will bring itself to a state of very highly condensed matter: that one of a white dwarf! The different stages through which the Sun will rise from its state of a red giant to its final highly compressed are still not very clear but it’s well known that before it the Sun will have to go through a phase where will lose a certain amount of its mass, dispersing it into space: its last stages of life will depend on precisely how this will happen. According to already processed calculations, during this phase the Sun will suffer a loss in mass equivalent to about 33% of its total mass, the subject to be dispersed with the solar wind. Therefore the loss of mass of our star, the orbits of the planets should expand, so that the orbital distance of the Earth should, at least theoretically, increase up to a maximum of 150% of its current value but either way it should interact with the colossal Sun's outer atmosphere of that time with respect to the tides, which, contrary to what happened until then, should bring the Earth's orbital radius to decrease, bringing our planet to be enveloped in the outer layers of the red giant!

Although the early Earth may be protected by technological means by intense solar radiation after the Sun has left the main sequence, it cannot escape destruction during the red giant phase. Unless ... it does not diverge "artificially" by a certain amount from its present orbit, precisely in order that it cannot be reached by the solar hot gases expanding. But is it a really feasible hypothesis this one that at first glance seems quite imaginative? We enter then in science-fiction that, at least at times, proved predictive of events that actually happened then.

In principle, this would be feasible because all that the Earth is an energy would require additional orbital. In other words, if, in one way or another, the Earth was accelerated on its own orbit, it would move away from the Sun going to arrange themselves in an orbit of larger radius. But if you try to increase the radius of Earth's orbit to the desired value, simply by giving more speed to the Earth, you would incur in problems of extreme technical difficulty that still could be simplified somewhat by removing some difficulties, using the heads of gravitational Mars, Jupiter and Saturn to facilitate the removal of the Earth from the Sun. But even with the help of these planets, you should begin by increasing the Earth's orbital energy until the Earth is not located close enough to these planets can use their gravitational fields to capture additional energy.

If the Earth, for example, moved in its orbit at a speed of about 45 kilometers per second, it would escape the Solar System altogether wandering in interstellar space, a hypothesis that is very reminiscent of what happens to the Moon in the Sci-Fi series "Space 1999 ". The orbital velocity of the Earth is now approximately 30 km per second; under the circumstances, the Earth is expected to accelerate other 15 km per second in order to escape the solar system and move away from the Sun in expansion. But the energy required to do this is equivalent to the total energy emitted by the Sun in about three months, an immense and prohibitive amount considering that must be available in a short time! Certainly, this will not happen, fortunately, that billions of years, or when mankind will face a menacing Sun; much before it begins its destructive expansion in the group of giants, scientists and engineers, knowing what will happen to the reserves if you do not land plays a protective effect on them, could begin to facilitate the exit of the Earth from its orbit increasing its speed gradually up to a speed of about 49 km per second….this is Sci-Fi, of course. But if this occurs in a period of about 1.5 millions of years, a very short time if compared to the time it takes the Sun in its phase of subgiant, the speed of Earth will not be increased by more than 1 cm per second a year, which is the amount of energy required in a year would be the same that is emitted by the sun in five seconds! Although this is still a high amount of energy, it will be impossible to retrieve it for a civilization that, hopefully, you will be technologically evolved in a few billion years!

If this amount is still not enough, the acceleration process of the Earth at the speed required may be extended for a period of 100 million years, adding a hundredth of a centimeter per second each year. For this project mankind should be evolved to such an extent as to leave each second, in an explosive manner and on the side opposite to the direction of movement, an amount of energy equal to that released by a hydrogen bomb of about 7.5 tons. Such explosions would push the Earth out of its orbit so as to increase the speed of the required amount. This would not be necessary for every 100 million years if the Earth could be brought close enough to Mars, they can use the gravitational pull of Mars, and then close enough to Jupiter.

Although this escape from the solar system seems to imply a possible but very unrealistic energy application technique, it is clear that this is the only solution to be implemented to prevent the destruction of Earth.

It could, in fact, be necessary to turn the Earth into a large spaceship and move it again to a more distant orbit around the Sun in expansion or, at least, completely away from the Sun itself, sending it into orbit around another star appropriate, not too far away from the Solar System. That’s Sci-Fi…ok. But if the Earth were to remain in the Solar System after the Sun will become almost 3000 times brighter than now, it should rotate on an orbit 40 or 50 times longer than the current one in order to survive the intense sunlight: a year would then land 350 current years! There’s no way out, unfortunately.

If instead of remaining in the Solar System the Earth would move out into space looking for another Sun, people should have a large stock of goods to survive, which will not be a problem anyway because by then the man will definitely learned (...) to get almost unlimited amount of energy from nuclear fusion and sophisticated technologies, such as the complete annihilation of matter and antimatter. It is also possible that the future man will have learned how to collect and store most of the solar energy now dispersed in space. Thus, special installations conversion and energy storage will be prepared and placed on bodies such as Mercury, Venus and the Moon, and for hundreds of millions or billions of years, enough solar energy could be collected to meet the needs of the Earth in the space of rambling inhabitants of other centuries yet.

domenica 9 novembre 2014

"L'AMMASSO STELLARE DELLA IADI" / "THE HYADES STAR CLUSTER"



Alti nel cielo occidentale di prima sera in questo periodo, due dei più importanti ammassi stellari conosciuti attraggono l’attenzione dell'osservatore - anche inesperto - che volge la sua attenzione verso la costellazione del Toro: si tratta delle Pleiadi e delle Iadi. Anche se Charles Messier incluse solo il primo di questi due ammassi nel suo famoso catalogo di oggetti celesti piu o meno "abbordabili", le Iadi hanno sempre rivestito una grandissima importanza in Astronomia; sono infatti note fin dai tempi preistorici e se ne trova citazione nelle opere di autori classici: ma, soprattutto, le stelle che per i greci erano figlie di Atlante e sorellastre delle Pleiadi hanno rivestito una grandissima importanza nella comprensione dei meccanismi che governano la morfologia e l’evoluzione degli ammassi stellari del tipo “aperto”. Principalmente perché, di tale categoria, le Iadi sono a noi quello in assoluto più vicino. Ma andiamo per ordine.


Stando alle stime attuali, la Via Lattea, ovvero la nostra galassia, conterrebbe un numero spropositato di stelle, forse anche superiore a 400 miliardi di unità, disperse a grandi distanze le une dalle altre. Tutte queste stelle non sono nate nello stesso periodo, seppur in epoche diverse, dal gas interstellare che contiene principalmente idrogeno ed elio. Detto questo, sarebbe stato forse quasi impossibile riuscire a capire le proprietà e l'evoluzione delle stelle se alcune di esse non fossero raggruppate in ammassi, proprio come le Iadi o le Pleiadi. E il motivo è presto detto.

Tutte le componenti di un ammasso stellare possono essere considerate come poste alla medesima distanza da noi osservatori. Proviamo, adesso, a considerare due stelle appartenenti allo stesso ammasso stellare, immaginando che una delle due sia, ad esempio, quattro volte più luminosa dell'altra; il fatto che entrambe le stelle si trovino alla stessa distanza assicura che la differenza di luminosità percepita sia unicamente intrinseca e non dovuta, cioè, al fatto che la stella meno luminosa si trova d'una distanza superiore rispetto a quella più luminosa: studiando quindi un ammasso, dove le stelle sono localizzate alla medesima distanza dalla Terra, esse possono essere facilmente classificate in base alla loro luminosità apparente che però, in questo caso, riflette proprio quella intrinseca. Tra l’altro, un ulteriore proprietà degli ammassi stellari è che le stelle loro appartenenti sono nate tutte nello stesso momento e danno quindi la stessa età. Con ogni probabilità, le nubi di gas dalle quali si formano gli ammassi stellari aperti come le Iadi hanno composizione omogenea, proprietà che si riflette sul contenuto chimico delle stelle che quindi hanno tutte lo stesso mix di elementi; se si riuscissero a determinare con precisione le età di molti ammassi stellari, si avrebbe un ottimo quadro di come è cambiata la composizione del gas interstellare durante la vita della Via Lattea: infatti, proprio come le stratificazioni di roccia mostrano la storia geologica della Terra, così gli ammassi stellari offrono un campionario di stelle situato nella Galassia che è sempre in continua evoluzione. Sfortunatamente gli ammassi stellari non sono, geologicamente parlando, “ordinati in successione” attorno a noi, ragione per la quale è certamente non facile disporli nel giusto "ordine".

Esistono due categorie di ammassi stellari: quelli detti “globulari”, dalla forma più o meno sferica, sono situati in una sorta di alone attorno al rigonfiamento galattico, anche se molti di essi penetrano all’interno della Via Lattea; sono composti da migliaia o, addirittura, milioni, di stelle vecchie diversi miliardi di anni, la cui composizione chimica è generalmente priva di metalli. Al contrario, gli ammassi composti da stelle giovani, generalmente più piccoli e con un minor numero di componenti - proprietà, questa, che conferisce loro forme non definite - sono detti ammassi “aperti”. Al contrario dei globulari, gli ammassi di questo ultimo tipo sono sparsi nel disco galattico e non nell'alone. In ermini astrofisici, il più importante esempio tra questi ultimi è sicuramente l’ammasso delle Iadi. Queste sono apparentemente centrate sulla luminosa stella Aldebaran, che segna l’occhio sinistro del grande Toro celeste. Si trovano ad una distanza di 150 anni-luce da noi, valore che attribuisce a questo ammasso stellare il record di essere quello più vicino; la vicinanza lo rende così esteso da coprire ben 8° sulla volta celeste, ben 16 volte il diametro apparente della Luna. Data la loro vicinanza, le stelle delle Iadi appaiono ben distanziate le une dalle altre, motivo per il quale C. Messier non classificò come un ammasso nel suo famoso catalogo.Per la loro vicinanza, le Iadi sono state la prima pietra sulla quale vennero costruiti i parametri per misurare la distanza dagli ammassi stellari ma non solo: allo stesso modo, infatti, venne dedotta anche la distanza di galassie lontane e, alla fine, le dimensioni dello stesso Universo. Come? La distanza di degli ammassi può essere misurata utilizzando un metodo, quello “degli ammassi in moto”, estremamente semplice e che si basa su considerazioni puramente geometriche. Questo metodo si basa sul fatto che tutte le stelle dell'ammasso si muovono più o meno con velocità uguali e traiettorie parallele. Tutte le Iadi, infatti, si muovono rispetto al Sole con una velocità di circa 45 km/s; i moti individuali, l'uno rispetto all'altro, hanno velocità minori di 0,75 km/s: in altre parole, fossero dei soldati appartenenti ad una legione, potremmo dire che sono molto disciplinati avendo, tuttavia, una leggera propensione ad uscire dall'inquadramento. Muovendosi parallelamente l'una all'altra, le traiettorie delle Iadi, per puro effetto di prospettiva, sembrano tendere verso un singolo punto, proprio come i binari ferroviari sembrano convergere in un punto all'orizzonte o una pioggia di meteore che proviene da un radiante. Il punto sulla volta celeste dove il moto delle Iadi sembra apparentemente convergere si trova non lontano dalla luminosa Betelgeuse (Alpha Orionis).

La distanza del punto verso cui un ammasso stellare come le Iadi sembra convergere si trova comparando il suo moto angolare con la sua vera velocità nello spazio; il primo viene determinato varie fotografie ad intervalli di anni e misurando le variazioni astrometriche di ogni singola stella mentre la misurazione della vera velocità nello spazio comporta la misurazione della componente della velocità lungo la linea visuale (velocità radiale) che si ottiene moltiplicando la velocità radiale per la tangente dell'angolo tra l'ammasso e il punto di convergenza. Proprio questo metodo, fondato sul movimento dell'ammasso, è stato applicato alle Iadi ma anche alla cosiddette "correnti in moto" (come quella dell'Orsa Maggiore), la cui velocità non può essere misurata con metodi diretti. Una volta identificato il punto di convergenza delle Iadi, si può quindi stimare con accuratezza la distanza di ogni stella dell'ammasso. Le distanze di ammassi stellari simili sono state trovate mettendo in relazione le stelle di un certo ammasso con i corrispettivi membri simili presenti nelle Iadi, assumendo quindi che le stelle che hanno le stesse proprietà, ovvero gli stessi spettri, hanno anche la stessa luminosità intrinseca: dal confronto tra la luminosità apparente e la luminosità intrinseca, attraverso le Iadi è possibile stimare la distanza di qualunque ammasso stellare. Prendendo come riferimento le Iadi, è quindi possibile estendere la scala delle distanze astronomiche ad altri ammassi stellari nella nostra e in altre galassie più distanti.

Le Iadi sono anche usate come punto di riferimento per lo studio della composizione chimica degli ammassi stellari. Gli astronomi spesso si riferiscono agli ammassi stellari indicandoli come più o meno ricchi di metallo (generalmente, si intendono così tutti gli elementi, escludendo l'idrogeno e l’elio) proprio rispetto alle Iadi. Ciò perché, essendo molto vicine e quindi molto luminose, tali stelle sono state studiate a fondo dal punto di vista dell'evoluzione stellare. Le Iadi furono uno dei primi due ammassi stellari ad essere studiato dall’astronomo E. Hertzsprung all'inizio del secolo scorso; egli, infatti, si accorse che per le stelle in un ammasso esistevano solo determinate combinazioni di luminosità e colore, proprietà di tutte le stelle. L’altro ammasso stellare oggetto del suo studio fu quello delle altrettanto vicine Pleiadi. L’astronomo danese rifletté sul fatto che tra queste non figuravano stelle rosse di una certa luminosità mentre le Iadi ne contenevano quattro; il motivo, tuttavia, fu presto evidente. Le Iadi sono almeno dieci volte più vecchie delle Pleiadi, tanto che alcune delle stelle hanno esaurito il loro idrogeno, bruciando adesso l’elio: in termini evolutivi, queste sono hanno già abbandonato la “sequenza principale” del diagramma HR. In aggiunta, poiché nelle Iadi sono state reperite almeno sei nane bianche, gli astronomi deducono che alcune delle stelle di questo ammasso hanno completamente esaurito il loro combustibile nucleare.

La maggior parte degli ammassi stellari del tipo “aperto” si sfaldano in meno di 50 milioni di anni dopo la fase di formazione stellare, processo noto come "evaporazione". Solo quelli formati da stelle estremamente massicce e che orbitano lontano dal centro galattico possono evitare tale sfaldamento in tempi prolungati. Stando a ciò, molto probabilmente le Iadi contenevano una popolazione di stelle assai maggiore quando l’ammasso era molto giovane; stime sulla massa originaria delle Iadi la determinano tra 800 e 1600 volte la massa del Sole, il che implica la passata presenza di un gran numero di stelle. Teoricamente, un giovane gruppo di queste dimensioni dovrebbe dare vita a stelle e oggetti substellari di tutti i tipi spettrali, da massicce stelle di tipo O fino a fredde nane brune. Tuttavia, studi compiuti sulle Iadi dimostrano che in tale ammasso non esistano stelle ne dell’uno ne dell’altro tipo tra quelle situati agli estremi limiti di massa. Avendo un’età di 625 milioni di anni, il turn-off della sequenza principale delle Iadi è di circa 2,3 masse solari: in altre parole, tutte le stelle più pesanti si sono già evolute in subgiganti, giganti o nane bianche mentre quelle meno massicce continuano tutt’ora la fusione dell'idrogeno.

Ma quali stelle popolano le Iadi? Specifichiamo, innanzitutto, che la luminosa Aldebaran è solo prospetticamente stagliata sulle Iadi; distando infatti "solo" 65 anni luce, chiaramente non ne è membro. Detto questo, nel cuore dell'ammasso sono state rilevate in tutto 8 nane bianche, ovvero il prodotto finale di stelle dei primi tipi spettrali ciascuna con massa circa 3 volte quella solare. Lo stadio evolutivo precedente è invece rappresentato dalla presenza di quattro giganti rosse di tipo spettrale K0 con massa circa 2,5 volte quella del Sole. Una gigante bianca di tipo A7 è la componente primaria del sistema binario θ² Tau, che include un compagna meno massiccio ma sempre di tipo spettrale A; questa coppia è associata a θ¹ Tau, una delle quattro giganti rosse di cui sopra e che possiede un compagna stretta di tipo A. Tra i membri restanti dell’ammasso sono comprese numerose stelle luminose di tipo spettrale A (almeno 21), F (circa 60) e G (circa 50); tutte queste stelle sono concentrate più densamente all'interno il raggio gravitazionale delle Iadi, che equivale a circa 32,6 anni-luce. In confronto, entro un raggio di 32,6 anni-luce dal Sole sono presenti solo 4 stelle di tipo A, 6 di tipo F e 21 di tipo G. Nonostante la vicinanza dell’ammasso e i numerosi studi compiuti su di esso, il grande corteo di stelle di massa inferiore che lo popolano - principalmente tipo spettrale K e M - rimane poco conosciuto; almeno una cinquantina sono nane di tipo K mentre il numero delle nane rosse di tipo M dovrebbe eccedere di poco la dozzina, poche delle quali sono oltre il tipo spettrale M3. Una dozzina risultano essere anche le nane brune finora rilevate. Tale carenza nella parte inferiore del range di massa contrasta fortemente con la distribuzione di stelle entro 32 anni-luce dal Sole, dove giacciono almeno 240 nane rosse di tipo M, ovvero il 76 % di tutte le stelle presenti nel vicinato solare.

La distribuzione dei tipi stellari nelle Iadi mostra chiaramente una sorta di segregazione delle componenti. Infatti, con la sola eccezione delle nane bianche, entro 6,5 anni-luce dal centro dell’ammasso sono presenti solo sistemi stellari dalla massa superiore a quella solare. Tale concentrazione di stelle pesanti conferisce alle Iadi la complessa struttura osservata anche ad occhio nudo, con un nucleo definito da luminosi sistemi stellari ravvicinati e una sorta di alone costituito, al contrario, da stelle ampiamente separate tra loro, moltissime delle quali appartenenti ai tardi spettrali. Il raggio della regione centrale delle Iadi è di 8,8 anni-luce (poco maggiore della distanza tra il Sole e Sirio) mentre il raggio entro il quale è concentrata metà della massa totale dell’ammasso è di 18,6 anni-luce; infine, il raggio gravitazionale, equivalente a ben 32,6 anni-luce, rappresenta il limite esterno al di la del quale ogni oggetto non è più legato alle Iadi. Lo sfaldamento avviene nell'alone, laddove stelle piccole sono proiettate verso lo spazio esterno da coinquilini molto più massicci; dall’alone, queste possono quindi essere perse a causa di forze mareali esercitate dal nucleo galattico o dalla collisione con nubi di idrogeno alla deriva: in tal modo, le Iadi hanno probabilmente perso gran parte della loro popolazione di nane di tipo M originaria, assieme a un numero considerevole di altre componenti luminose.

Un altro risultato della segregazione di massa è la presenza di sistemi binari nel nucleo delle Iadi; infatti, più di metà delle stelle di tipo F e G conosciute appartengono proprio a sistemi binari situati nella regione centrale. Come nel vicinato solare, la natura binaria aumenta proporzionalmente all’aumentare della massa. La frazione di sistemi binari nelle Iadi aumenta dal 26% tra stelle di tipo K fino 87% tra stelle di tipo A. I sistemi binari presenti nelle Iadi tendono ad avere piccole separazioni, con la maggior parte di tali coppie disposte su orbite comuni con semiasse maggiore inferiore a 50 Unità Astronomiche. Sebbene l'esatto rapporto tra membri singoli e multipli rimane incerto, esso ha notevoli implicazioni nella comprensione della popolazione dell’ammasso: alcuni, ad esempio, indicano in circa 200 il numero di componenti delle Iadi ma se la frazione composta da sistemi binari è del 50%, allora la popolazione totale dell’ammasso salirebbe ad almeno 300 singole stelle.

Alcune ricerche indicherebbero che il 90 % degli ammassi aperti si sfalda in meno di 1 miliardo di anni dopo la formazione mentre solo una piccola frazione sopravvive per tempi molto più lunghi. Nel corso dei prossimi milioni di anni le Iadi continueranno a perdere contemporaneamente sia la massa totale che i membri di appartenenza dal momento in cui i suoi membri più luminosi evolveranno al di fuori della sequenza principale e le sue stelle più deboli si allontaneranno dall’ammasso. Molto probabilmente, tra qualche migliaio d'anni, le Iadi rimaste saranno solo una dozzina, la maggior parte delle quali saranno sistemi binari o multipli, che in ogni caso rimarranno vulnerabili alle forze dissipative incontrate lungo la loro orbita attorno al nucleo galattico.Allorché volgerete lo sguardo verso il grande Toro celeste pronto a scagliarsi con tutta la sua forza contro il cacciatore Orione, osservate pure l'abbagliante luce giallo arancione della stella che ne segna l'occhio, Aldebaran, ma non dimenticate di contemplare le Iadi e la grande mole di informazioni date da quelle stelle che ne segnano il muso, a noi così vicine al punto da mostrare la loro bellissima ma effimera coesione anche al solo occhio nudo.


(Foto / Picture by Alson Wong)




High in the western sky on early Autumn's evenings, two of the most important known star clusters attract the stargazer’s attention - even the inexperienced one - that hit attention turns to the constellation Taurus: this is the Pleiades and the Hyades. Although Charles Messier included only the first one of these two clusters in his famous catalog of celestial objects, the Hyades have always played a great importance in Astronomy. They have been known since prehistoric times and have been mentioned in the works of classical authors; but, above all, those stars that for the Greeks were the daughters of Atlas and half-sisters of the Pleiades have played a great importance in understanding the mechanisms that govern the morphology and evolution those type of star clusters called "open". Mainly because, of such a category, the Hyades are closest one. But let’s have a deeper look.

According to current estimates, the Milky Way, or our galaxy, contains a disproportionate number of stars, perhaps even more than 400 billion units, scattered at great distances from each other. All these stars were not born in the same period but at different times, each of them by the interstellar gas containing primarily hydrogen and helium. That said, it might have been almost impossible to understand the properties and evolution of stars if some of them were not grouped in clusters, just as the Hyades and the Pleiades. And the reason is obvious.

All the components of a star cluster can be considered to be at the same distance from us as observers. Let us now consider two stars in the same star cluster, figuring that one of them is, for example, four times more bright than the other one; the fact that both the stars are the same distance ensures that the difference in perceived brightness is only intrinsic and not due to the fact that the star is less bright for a distance greater than the brightest: studying then a star cluster, where the components are thus localized at the same distance from Earth, they can easily be classified according to their apparent brightness which, however, in this case, reflects exactly the intrinsic one. Among other things, a further property of a star cluster is that the stars belonging to it were all born at the same time and so they have the same age. It is likely that the gas clouds from which open star cluster as the Hyades are formed have homogeneous composition, a property which is reflected in the chemical content of the stars so that all have the same mixture of elements; if you were able to accurately determine the age of many star clusters, you would have a good picture of how it has changed the composition of the interstellar gas over the life of the Milky Way: in fact, just as a series of layers of rock show the geological history of earth, so the star clusters provide a sample of stars located in the galaxy evolution. Unfortunately star clusters are not, geologically speaking, "ranked in succession" around us, the reason for which is, in any case, certainly not easy to arrange them in the right order.


There are two types of star clusters: those known as "globular", with a more or less spherical shape, are set in a sort of halo around the galactic bulge, although many of them penetrate the Milky Way’s disc; they are composed of thousands, or even millions, of stars several billion years old, whose chemical composition is, generally, very poor of metals. On the contrary, open clusters are composed by young stars; they are generally smaller, having a smaller number of components - property which gives them not well defined shapes – the reason why they are called as "open". In contrast to the globular clusters, they are scattered in the galactic disk. The most important example of the latter type is precisely the Hyades cluster. As seen from Earth, they are apparently centered on the bright star Aldebaran, which marks the left eye of the great bull of the heavens. They are actually located at a distance of 150 light-years from us, the value it attaches to this cluster the record of being the closest; proximity makes it so extended as to cover as many as 8° on the sky, 16 times the apparent diameter of the Moon! Given their proximity, the stars of the Hyades are well spaced from each other, which is why Charles Messier did not classify as a cluster like many others in his famous catalog.

Because of their proximity, the Hyades were the foundation stone on which were built the parameters to measure the distance from the star clusters, but not only that: the one of external galaxies too and, at the end, the size of the universe itself. In fact, the distance of the clusters can be measured using a method that is called "clusters in motion", extremely simple and which is based on purely geometrical considerations. This method relies on the fact that all the stars move more or less with equal speed and parallel trajectories. All Hyades, in fact, move from the Sun with a speed of about 45 km / s; the individual motions, relative to one another, have lower speed of 0.75 km/s: in other words, if they were soldiers belonging to a legion, we could say that they are very disciplined having, however, a slight propensity to drift away. Moving parallel to each other, the trajectories of the Hyades, for pure effect of perspective, seem to tend towards a single point, just like the railroad tracks appear to converge at a point on the horizon or a meteor shower that comes from a celestial radiant . The point on the celestial sphere where the motion of the Hyades is apparently converge is located not far from the bright star Betelgeuse (Alpha Orionis).

The distance of the point at which a star cluster like the Hyades seems to converge is comparing its angular velocity with its real speed into space; the first one is determined by several photographs at intervals of years and measuring astrometric changes of every single star while the measurement of the true speed in space involves the measurement of the velocity component along the line of sight (radial velocity) that is obtained by multiplying the radial velocity for the tangent of the angle between the cluster and the point of convergence. Such a method, based on the motion of the cluster, was applied to the Hyades but also to the so-called moving clusters such as the Ursa Major one, whose speed can not be measured by direct methods. Once the point of convergence of the Hyades was identified, the distance of each star of the cluster have been estimated. The distances of star clusters like this one are found by comparing the stars in a cluster with the corresponding similar members present in the Hyades, thus assuming that the stars that have the same properties or the same spectra, they also have the same intrinsic brightness: by comparing the apparent brightness and luminosity, through the Hyades it is so possible to estimate the distance of any star cluster! Taking as reference the Hyades, it is possible to extend the scale of astronomical distances to other star clusters in our galaxy and in other more distant.

The Hyades are also used as a point of reference for the study of the chemical composition of star clusters. Astronomers often refer to such clusters by highlighting them as more or less rich in metal (a term usually meant as the whole elements but hydrogen and helium) than the Hyades themselves. This is because these stars, being very close and so very bright, have been thoroughly investigated for understanding stellar evolution. The Hyades were one of the first two star clusters to be studied by the astronomer E. Hertzsprung at the beginning of the last century; indeed, he realized that for the stars in a cluster, there were only certain combinations of brightness and color properties of all stars. The other star cluster object of his study were the Plejades, even close; the Danish astronomer noticed that red stars of a certain brightness were not present among these stars while the Hyades contained four; the reason, however, became evident soon: the Hyades are at least ten times older than the Pleiades, so much so that some of the stars have exhausted their hydrogen while burning helium at present time: in evolutionary terms, these stars have already abandoned the "main sequence" of the HR diagram. In addition, as in the Hyades were found at least six white dwarfs, astronomers deduce that some of the stars of this cluster have completely exhausted their nuclear fuel.

Most of open star clusters flake off in less than 50 million years after their formation, a process known as "evaporation". Only those cluster formed from extremely massive stars that orbit far from the galactic center can avoid this disintegration in a long time. According to that, it is likely that the Hyades contained a much greater number of stars when they were very young; some estimates of the original mass give a result between 800 and 1600 times the mass of the Sun, which leads to a large number of stars in the past. Theoretically, a young group of this size should give birth to stars and substellar objects of all spectral types, from massive O-type stars to cool brown dwarfs. However, studies on the Hyades show that there are no stars in this cluster of neither the opposite sizes of mass. Given the Hyades an estimated age of 625 million years, the turn-off of the main sequence is about 2.3 solar masses: in other words, all the heavier stars have already evolved subgiants, giants or white dwarfs while less massive still continue the fusion of hydrogen.But which stars populate the Hyades? We must specify, first, that the bright Aldebaran is only prospectively silhouetted on the Hyades; it is distant "only" 65 years light, clearly not a member. That said, in the heart of cluster were detected an amount of eight white dwarfs, which is the end product of the first stars of spectral types each with a mass about 3 times that of the Sun. The previous evolutionary stage is represented by four red giants of spectral type K0 with a mass about 2.5 Sun masses. A giant white type A7 is the primary component of the binary system known as θ² Tau, which includes a less massive companion but always of spectral type A; this pair is associated with θ¹ Tau, one of the four red giants above and who has a close companion of type A. Among the remaining members of storage includes several bright stars of spectral type A (at least 21), F (about 60) and G (about 50); all these stars are most densely concentrated within the gravitational radius of the Hyades, which is equivalent to approximately 32.6 light-years. In comparison, within a radius 32.6 light-years from the Sun are only 4 stars of type A, 6 F-type and 21 G-type. Despite the cluster's proximity and numerous studies on it, the great procession of stars with mass less that populate it - mainly spectral type K and M - is little known; at least, fifty dwarfs are type K and the number of M-type red dwarfs go beyond just the dozen, a few of which are beyond the spectral type M3. A dozen turn out to be even brown dwarfs found so far. This deficiency in the lower mass range contrasts sharply with the distribution of stars on within 32 light-years from the Sun, where they lie at least 240 M-type red dwarf, or 76% of all the stars in the solar neighborhood.

The distribution of stellar types in the Hyades clearly shows a kind of segregation of the components. In fact, with the exception of white dwarfs within 6.5 years-light from the cluster's center are just star systems more massive than the Sun. This concentration of heavy stars gives the Hyades the complex structure observed with the naked eye, with a core defined by bright star systems close together and a sort of halo constituted, on the contrary, by stars widely separated from each other, many of which belong to late spectral types. The radius of the central region of the Hyades is 8.8 light-years (slightly greater than the distance between the Sun and Sirius) and the radius within which is concentrated half of the total mass of the cluster is 18.6 light-years; Finally, the gravitational radius, equivalent to 32.6 light-years is the outer limit beyond which every object is no longer linked to the Hyades. The breakup occurs in the halo, where small stars are projected to outer space by roommates much more massive; they may be lost by the halo due to tidal forces exerted by the Galaxy itself or by collision with hydrogen clouds adrift. By this way, the Hyades are likely to have lost much of their population of dwarf M-type original with to a considerable number of other light components.Another result of mass segregation is the presence of binary systems in the core of the Hyades; in fact, more than half of the F and G-type stars known belong to binary systems located in the central region. As in the solar neighborhood, the binary nature increases proportionally with increasing mass. The fraction of binary systems in the Hyades increases by 26% between K.type stars until 87% between those A-type. The binary systems present in the Hyades tend to have small separations, with most of these pairs arranged on orbits with a common axle shaft greater than 50 Astronomical Units. Although the exact relationship between individual members and multiple remains uncertain, it has important implications in the understanding of the cluster's population: some, for example, indicate the number of about 200 members of the Hyades but if the fraction is made ​​up of binary systems 50%, then the total population of storage would rise to at least 300 individual stars.

Some researches indicate that 90% of open clusters dissolve in less than 1 billion years after the formation and only a small fraction survives for much longer. Over the next few million years the Hyades will continue to lose at the same time both the total mass and the belonging stars as the brighter members will evolve outside of the main sequence and its fainter stars will fall away from storage. Most likely, between a few thousand years, the Hyades will be remained only a dozen, most of which will be binary or multiple systems, which, in any case, will remain vulnerable to dissipative forces encountered along their orbit around the galactic core.

When you look to the great celestial bull, ready to lash out with all his strength against Orion the hunter, admire the dazzling light yellow-orange star that marks its eye, Aldebaran, but do not forget to contemplate the Hyades and large amount of information given to us by those stars that mark the bull's head, so close to show their beautiful but short-lived cohesion even the naked eye.