giovedì 4 luglio 2019

NUOVE SCOPERTE SU ETA CARINAE

Situata nella costellazione australe della Carena e lontana 7.500 anni luce dal Sistema Solare, η (Eta) Carinae è una delle stelle più massicce e luminose della nostra galassia.

La sua luminosità apparente (6a grandezza) è così bassa da renderla a mala pena visibile ad occhio nudo; in passato, però, tale stella manifestò diversi e notevoli aumenti di luminosità l'ultimo dei quali, nel 1843 (evento noto come “grande eruzione”), portò η Carinae per alcuni mesi non solo a superare la seconda stella del cielo notturno per luminosità, Canopus (mag. apparente 0,72) ma a rivaleggiare addirittura con Sirius (mag. apparente 1,42), la più luminosa stella del cielo notturno!

Il bizzarro comportamento luminoso di η Carinae a portato quindi gli astronomi a seguirla costantemente con telescopi sempre più sofisticati e su un ampio spettro di lunghezze d'onda.

I dati ad oggi acquisiti delineano η Carinae essere la componente più massiccia di un sistema di due stelle, nata con una massa almeno 150 volte quella del Sole e dotata di un potere radiante pari a 5 milioni di volte quella della nostra stella: di stelle "estreme" come η Carinae se ne contano davvero poche nella Galassia, più di una decina!

Si ritiene che tali stelle raggiungano il cosiddetto limite di Eddington, quel valore massimo raggiungibile dalla pressione di radiazione senza che questa vada a dissolvere nello spazio esterno alla stella i suoi strati gassosi più esterni; stelle con più di 120 masse solari sarebbero teoricamente in grado di superare questo limite ma la loro enorme massa produce una gravità così forte da mantenerne integra la struttura nonostante l'elevatissima pressione di radiazione.

Una possibile spiegazione per la variabilità luminosa di questo "mostro" cosmico è che tali variazioni siano state indotte da complesse interazioni tra questa e due altre stelle ad essa gravitazionalmente legate in un unico sistema: in tale scenario, η Carinae avrebbe letteralmente inghiottito una delle due compagne, innescando la grande eruzione registrata nel 1843 e la prova di quell'evento risiederebbe negli enormi lobi bipolari - ortogonali all'asse di rotazione - che circondano la stella, formati da polveri e gas caldo entrati in interazione con altro materiale espulso dalla stella in precedenti episodi.

Negli ultimi 25 anni, questa super-stella è stata spesso seguita dal telescopio spaziale Hubble; di recente, usando la Wide Field Camera 3 al fine di mappare la struttura nebulosa che circonda η Carinae in luce ultravioletta, in particolare quella prodotta dal magnesio presente nel gas caldo in espansione (in blu nell'immagine), è stata prodotta la stupenda immagine qui di seguito presentata (i bellissimi colori derivano dall'assegnazione del blu (F280N), verde (F336W) e rosso (F658N) ad ognuna delle immagini monocromatiche, ovvero in scala di grigi, ottenute con filtri individuali): 

La sorprendente immagine di Eta Carinae ottenuta dall'HST con, indicate, le reali dimensioni della nebulosa prodotta dalla grande eruzione del 1843 e da altre precedenti (Image credits: NASA/ESA)

Prima di tale acquisizione, si riteneva che il magnesio ivi presente sarebbe lo si sarebbe dovuto reperire frammisto ai più esterni filamenti di azoto incandescente (in rosso nell'immagine): grande sorpresa, quindi nel rilevare come questo sia invece presente nello spazio interposto tra i due lobi i densi filamenti di azoto, in un'area in cui ci si aspettava vi fosse il vuoto.

Evidentemente, la grande quantità di magnesio, che sui espande ad alta velocità, è stata espulsa dalla stella appena prima dei due lobi bipolari (parliamo sempre della grande eruzione dell’800) ma non è ancora entrata in collisione con il restante materiale che la circonda.

Un'altra curiosa caratteristica visibile nella ripresa sono le “strisce blu” rettilinee che partono dalla stella centrale; laddove la luce ultravioletta prodotta dalla stella oltrepassa alcune dense aree di polvere (o passa attraverso buchi ivi presenti), viene prodotta un'ombra lunga e sottile, fenomeno simile a ciò che accade quando i raggi del Sole attraversano bordi o buchi nelle nuvole della nostra atmosfera.

Lo spettacolo finale di η Carinae giungerà nel momento in cui la stella esploderà come supernova, evento che teoricamente potrebbe essere già avvenuto; il nucleo denso di questo mostro muterà, invece, in un buco nero.

lunedì 13 maggio 2019

LE GALASSIE-MEDUSA

Parlando di Universo, la prima cosa spesso associata a tale definizione è la dimensione degli immensi spazi cosmici; altre volte, la mente ricorre subito ad idealizzare la magnificenza di oggetti quali pianeti inanellati o nebulose.

Certamente più atipico è, invece, associare agli oggetti che popolano il Cosmo forme bizzarre, tali che neanche la fervida fantasia umana riuscirebbe ad immaginare; tra i casi più incredibili - e, diciamolo, anche poco noti! - quello delle cosiddette “galassie-medusa”, enormi e distanti "universi-isola" caratterizzati dell’esibire vaste appendici gassose in grado di attivare nel nostro cervello illusioni di pareidolia. 

Ma di cosa parliamo?

Muovendosi all'interno degli ammassi di galassie, permeati da vaste quantità di gas caldo, la pressione esercitata da quest’ultimo (che potremmo definire come una sorta di “vento intergalattico”) porta il gas presente nelle galassie (legato a queste in maniera meno forte rispetto alla pressione esercitata da quello presente nel mezzo intergalattico) a subire una forza di trascinamento che lo spinge al di fuori di esse.

Come risultato di tale fenomeno, la formazione di lunghe e sorprendenti code di gas (solitamente rosso, colore caratteristico dell'idrogeno ionizzato) che fuoriescono dalle galassie, dando a queste meduse con relativi tentacoli!

In tali code, laddove il gas viene compattato, aumentando di temperatura e densità, è quindi facile l’attivazione di intense aree di formazione stellare.

Le immagini qui presentate mostrano chiaramente come il materiale gassoso stia scorrendo al di fuori di tale galassie galassia lungo i rossi “tentacoli” visibili che, infatti, esibiscono velocità diverse rispetto al disco delle galassie.

Alcuni tra i più famosi esempi di galassie-medusa: in senso orario, da sx in alto: NGC4402, ESO 137-001, JO204 e D100

Ma lo stesso tipo di pressione esercitata dal gas presente nel mezzo intergalattico (detta “a pistone”) induce parte del gas presente nelle galassie a precipitare nelle loro parti più interne, dove si annida il buco nero che le governa: l’arrivo di tali quantità di gas all'orizzonte degli eventi di questi "mostri" cosmici induce quindi emissioni ad alta energia, manifestate nella spropositata luminosità delle regioni nucleari (image credits: ESO)

giovedì 2 maggio 2019

HYPERION, GIGANTESCO PROTO-SUPERAMMASSO DI GALASSIE

La luce che raggiunge la Terra da galassie estremamente distanti ha impiegato molto tempo per viaggiare e giungere ai nostri rilevatori: questa proprietà permette quindi di sondare l'Universo nel suo lontano passato ovvero quando esso era decisamente giovane.

Poiché la lunghezza d'onda della luce di questi oggetti viene notevolmente dilatata dall'espansione dell'Universo - effetto noto come “spostamento verso il rosso” o, più semplicemente, redshift - ne consegue che galassie lontanissime esibiscono redshift più grandi in proporzione alla loro distanza e, quindi, al tempo: il redshift diviene, quindi, una sorta di marcatore dell'età stessa dell’Universo!

Ebbene, da poco è stato scoperto un superammasso di galassie con redshift pari a 2,5: in altre parole, l’oggetto era presente nell’Universo già 2,3 miliardi di anni dopo il Big Bang!

Il protosuperammasso Hyperion (Image credits: VLT/ESO)

A tale struttura è stato attribuito il nome Hyperion, preso da quello di uno dei giganteschi Titani della mitologia greca; e non a caso. La massa di questo proto-superammasso è a dir poco immensa, stimata in oltre un milione di miliardi di volte quella del Sole (!): una valore così "titanico" da essere, a tutti gli effetti, la più grande e più massiccia struttura trovata in un’ubicazione così lontana nel tempo e nello spazio!

Strutture come questa sono state in realtà già osservate nell'Universo a redshift più bassi: in'un età a noi più recente, quindi, alla quale l'Universo ha già avuto tempo sufficiente per permettere ai superammassi di evolversi in strutture così grandi. Stando così le cose, non è difficile comprendere come la stessa esistenza dell'immenso Hyperion, già presente quando l'Universo era giovanissimo, sia un vero rebus! 


Hyperion, situato nella costellazione del Sestante, è stato identificato analizzando il grande numero di dati ottenuti dallo strumento VIMOS Ultra-deep applicato al Very Large Telescope (ESO), che fornisce una mappa tridimensionale dell'Universo distante senza precedenti sulla distribuzione di oltre 10 mila galassie!

La struttura di questo proto-superammasso è alquanto complessa: Hyperion contiene almeno 7 regioni ad alta densità - simili a grandi bolle - collegate da filamenti di galassie.

Mentre i superammassi presenti nell’Universo attuale tendono ad avere una distribuzione della loro massa molto più concentrata, la struttura di Hyperion è distribuita più uniformemente; tale differenza è probabilmente dovuta al fatto che i superammassi presenti nell'Universo recente, vecchi di miliardi di anni (molto più di Hyperion, quindi, che appare a noi quando era giovane), hanno avuto il tempo utile affinché la forza di gravità aggregasse la materia in regioni più dense.

Il grande ammasso di galassie di Ercole, lontano oltre 1 miliardo di anni luce, ripreso da VST (Very Large Survey Telescope); come gran parte dei superammassi galattici, la sua struttura appare notevolmente diversa da quella di Hyperion a seguito dell'evoluzione intercorsa a seguito della maggiore età

Grazie alle sue grandi dimensioni, già presenti nel giovane Universo, si ritiene che Hyperion possa evolversi in qualcosa di simile alle immense strutture presenti nell'Universo recente quali lo Sloan Great Wall o il superammasso della Vergine, quest'ultimo centro gravitazionale verso il quale si muove il Gruppo Locale di galassie che contiene anche la nostra, la Via Lattea.

domenica 14 aprile 2019

LA STRANA SUPER-TERRA GEMELLA DI MERCURIO

Nella continua ricerca di pianeti extra-solari, di tanto in tanto saltano all'attenzione alcuni casi veramente interessanti, soprattutto quando trattasi di pianeti di "tipo terrestre" ma con massa o dimensioni molto maggiori di quelle del nostro pianeta: motivo per il quale vengono definiti "super-Terre". 

Uno di questi è stato scoperto nel 2018 attorno ad un'anonima stellina di decima grandezza situata nella costellazione della Vergine, nota come K2-229: una nana arancione di sequenza principale lontana 339 anni luce dal Sistema Solare, dal raggio e massa pari al 79% e all'84% dei corrispettivi solari.

Rappresentazione artistica di K2-229 b durante un transito sulla stella K2-229

Con i dati ottenuti dal telescopio spaziale Kepler, è stato possibile individuare non uno ma ben tre pianeti attorno ad essa: tutti, aventi un'orbita così stretta da essere più vicini alla loro stella madre di quanto non sia Mercurio al Sole!

Studiando la velocità radiale della stella e i transiti che il più interno di questi tre pianeti (che orbita attorno alla stella in soli 14 giorni!) compie passando sul suo disco luminoso causando le variazioni di luminosità osservate da Kepler, è stato possibile determinare la dimensione e la massa del pianeta: e i risultati indicano che questo pianeta - chiamato K2-229 b - è un mondo "fatto di metallo": non dissimile da Mercurio per composizione e, per dimensioni, appena più grande della Terra.

Ma mentre la Terra, ma anche Venere e Marte, hanno nuclei metallici che costituiscono circa un terzo delle loro masse, il nucleo di Mercurio - e così quello di K2-229 b - ha grandi dimensioni più ragguardevoli, pari a due terzi della massa di questi due pianeti!

K2-229 b orbita attorno alla sua stella ad una distanza pari ad 1/100 della distanza tra la Terra e il Sole, rivolgendo ad essa sempre la stessa faccia: motivo per il quale, sul lato illuminato dalla stella, la temperatura diurna può raggiunge ben 2058° C (Mercurio, che orbita più lontano, raggiunge "solo" 427° C). 

Nonostante la sua vicinanza alla stella madre e l'estrema temperatura cui è sottoposto, si ritiene che K2-229 possa essere dotato di una sottile atmosfera di vapore di silicati creata dalle alte temperature sul lato rivolto verso la stella; anche se quest'ultima è estremamente attiva, tuttavia K2-229 b potrebbe non aver perso completamente la sua atmosfera: nel caso in cui tale pianeta possedesse un campo magnetico, infatti, questo potrebbe fare da scudo al potente vento stellare e alle intense radiazioni che provengono dalla stella a seguito dei brillamenti alla sua fotosfera.

Le stranezze di questo strano mondo inducono a chiedersi come sia nato. Tra le ipotesi maggiormente accettate: 1) parimenti a quanto probabilmente accaduto allo stesso Mercurio, subito dopo essersi formato K2-229 b ha subito il violento impatto di un corpo esterno che ha portato il pianeta quasi a disintegrarsi, perdendo gli strati più esterni e composti di materiale meno pesante 2) K2-229 b si è formato in una zona di quel sistema priva di silicati 3) l'attività della stella ha forse portato la il mantello del pianeta ad evaporare. 

giovedì 11 aprile 2019

LO STRAORDINARIO BUCO NERO E LA FORMAZIONE DEI GETTI DI PLASMA DI M87

Non fosse bastata la deflessione delle stelle nell'eclisse solare del 1919,  la precessione dell'orbita di Mercurio, l'individuazione delle lenti gravitazionali e, nel settembre del 2015, la rilevazione delle onde gravitazionali, abbiamo avuto l’ennesima conferma della validità di quanto Einstein postulò in riferimento agli strani fenomeni che accadono in presenza di campi gravitazionali estremi, come esposto nella sua teoria della relatività generale, ormai più di 100 anni fa. 

In tale questo contesto, la parte da padrone la fanno certamente i buchi neri, considerati dalla collettività (anche inesperta di fisica) come qualcosa, è proprio il caso di dirlo, dall'oscuro fascino. 

Un po’ come lo stregatto di Alice nel paese delle meraviglie, che pur scomparendo rendeva visibile il suo spettrale sorriso furbastro, dei buchi neri abbiamo finalmente acquisito non tanto un'immagine diretta - impossibile da cogliere perché la luce, dal loro potentissimo campo gravitazionale, non riesce ad evadere, rendendoli per l’appunto “neri” - quanto l’oscura ombra del guscio che li avvolge: un membrana chiamata orizzonte degli eventi, che rappresenta un limite che non ha nulla di tangibile, di toccabile (potessimo idealmente farlo...) ma è solo un concetto matematico, astratto e non percepibile: un confine tra le leggi della fisica che regolano questo Universo e l'ignoto.

Da sx a dx, zoom sulla gigantesca galassia ellittica M87, dal diametro stimato in 120 mila anni luce e massa almeno 200 volte quella della Via Lattea: da notare il lunghissimo jet fuoriuscente dall'orizzonte degli eventi dell'enorme buco nero centrale

L'immagine tanto discussa è, a tutti gli effetti, la prima ripresa diretta (e non virtuale, quale le numerose a cui siamo stati a lungo abituati a vedere in libri e film!) di un orizzonte degli eventi di un buco nero, situato nel nucleo di una gigantesca galassia ellittica, chiamata M87 o anche Virgo A (sigla che denota, la stessa, essere sede anche di una sorgente radio); e neanche tanto vicina se vogliamo, dal momento che la luce (e le onde radio) che oggi percepiamo di questa galassia sono partite ben 54 MILIONI di anni or sono!

Giusto per renderci conto dell'eccezionalità di quanto catturato dai radiotelescopi impiegati nel progetto EHT (Event Horizon Telescope), lavorando tutti in serie su segnali polarizzati a lunghezze d'onda millimetriche e submilimetriche, è come riuscire a scorgere una moneta da 2 Euro sulla superficie della Luna: l'impressionante potere della radiointerferometria!


La rete interferometrica dei radiotelescopi di EHT

L'importanza dell'immagine sta non solo nell'aver rilevato l'inquietante ombra dell'orizzonte degli eventi del buco nero di M87 ma, quasi paradossalmente, nell'asimmetria della luce di quanto compreso nell'ergosfera di quell'oggetto: quella del disco di accrescimento, formato dal materiale gassoso che orbita ad alta velocità attorno all'orizzonte degli eventi, intrappolato dalla sua gravità del buco nero, e che brilla proprio per l'intensa temperatura generata dagli attriti.


Le variazioni di forma luminosità osservate nel giro di pochi giorni nel materiale gassoso che forma il disco di accrescimento corrispondono, probabilmente, a variazioni di densità dovute ai velocissimi moti caotici cui è sottoposto dalle immense forze di gravità sprigionate dal buco nero supermassiccio; la cosa però non è certa: infatti, le immagini vengono deflesse seguendo lo spaziotempo curvo nella zona, producendo densità che possono quindi essere fittizie
Ricordiamo, ancora una volta, che l'immagine in realtà è stata ottenuta con i radiotelescopi e non da telescopi ottici (al fine di ottenere un'immagine vera e propria, i segnali radio captati dai ricevitori vengono convertiti in valori di temperature di brillanza o di unità di flusso); ma essa raffigura il disco di accrescimento esattamente come le simulazioni sino ad oggi effettuate ai supercomputer l’avevano prodotta tenendo conto di ciò che la relatività di Einstein descrive per ambienti in cui la gravità è a livelli così estremi da distorcere lo spaziotempo.

Stando alla teoria della relatività generale, i raggi luminosi vengono deflessi dal loro cammino rettilineo al passaggio attraverso un campo gravitazionale; quanto più intenso è tale campo, tanto maggiore è la deflessione subita. 

L'asimmetria luminosa osservata è dovuta essenzialmente alla concomitanza di due effetti: quello di di redshift gravitazionale e Doppler

Il primo induce la frequenza della radiazione emessa dalle parti del disco più vicine al buco nero - laddove dove il campo gravitazionale è più intenso - a subire uno spostamento vero frequenze più basse ed una diminuzione dell'intensità luminosa; i questo si sovrappone il secondo, dovuto alla velocità di rotazione del gas del disco, che ruota attorno al buco nero da sinistra verso destra: la radiazione generata da quella parte del disco di accrescimento che, a causa della rotazione, si avvicina all'osservatore ha di conseguenza frequenza ed intensità aumentate; il contrario avviene, invece, per la parte del disco che si allontana dall'osservatore. 

Questi due effetti, redshift gravitazionale e Doppler, agiscono combinatamente per la radiazione prodotta nella parte del disco di accrescimento che si allontana: cosa che spiega l'osservata diminuzione di luminosità; al contrario, i due effetti si annullano per l'altra metà del disco, portando l'immagine a mantenere l'intensità luminosa osservata.

Oltre all'emozione di poter osservare qualcosa finora solo prodotto virtualmente al computer, abbiamo quindi ricevuto l'ennesima conferma della relatività generale: cosa non da poco, e che ha fatto gridare all'immagine rilasciata il 10 Aprile 2019 come l'immagine del secolo!


L'immagine che ha fatto la storia: il disco rotante di gas ionizzato che circonda l'orizzonte degli eventi, quasi perpendicolare al getto relativistico che esce prorompentemente da M87. Il disco di accrescimento ruota a velocità fino a circa 1.000 km/s e si estende su un diametro massimo di 25 mila UA (a confronto, il raggio dell'orbita di Plutone è a 39 UA dal Sole)! Il tasso di accumulo del materiale che dal disco di accrescimento cade ed oltrepassa l'orizzonte degli eventi, è stimato in una massa solare ogni dieci anni circa ovvero 90 masse terrestri al giorno! E il diametro del buco nero? Ben 250 UA ovvero 38 miliardi di chilometri: qualcosa di davvero mostruoso, inimmaginabile! 

Nell'immaginario collettivo, un buco nero è solitamente considerato essere una sorta di mostro che divora qualsiasi cosa gli capiti attorno: visione certamente corretta anche se, ad oggi, nulla possiamo ancora dire su quanto accade al materiale divorato (a quello cioè, che ha oltrepassato l’orizzonte degli eventi che, specifichiamolo, non necessariamente coincide con la superficie vera e propria del buco nero se non in alcune parti quali ai poli di buchi neri dotati di un'elevato momento angolare).

Ma se la voracità dei buchi neri è cosa nota ai più, è altrettanto vera la presenza di getti di plasma (che emettono intensamente nei raggi X e γ) che, dai poli dell'orizzonte degli eventi, vengono sparati all'esterno e in direzioni diametralmente opposte a velocità prossime a quella della luce e a distanze davvero ragguardevoli: il getto presente proprio in M87, si estende per quasi 6.000 anni luce (!) dal buco nero dal quale si sprigiona ma in altre galassie sono stati misurati getti di materia lunghi anche centinaia di migliaia di anni luce!

La seguente, bellissima rappresentazione, fornisce un'idea realistica sulle reali dimensioni del buco nero di M87 (si intenda bene: dell'oggetto "buco nero" e non del suo orizzonte degli eventi!), dal diametro stimato in ben 38 miliardi di chilometri (!); chi ha familiarità con le dimensioni di stelle supergiganti come Betelgeuse (qui mostrata), potrà comprendere più facilmente di cosa stiamo parlando:


...giusto per dare un'idea sulle dimensioni REALI (non di quelle dell'orizzonte degli eventi!) del buco nero di M87: l'immagine a iuta a comprendere cosa si intende quando si parla di buchi neri "supermassicci", al contrario di quelli di "taglia stellare" (a sx nell'immagine), prodotti dal collasso dei nuclei di stelle massicce al termine della loro vita!

Molti curiosi si sono giustamente chiesti perché il team di EHT ha scelto di osservare un oggetto lontano 54 MILIONI di anni luce anziché, ad esempio, quello presente nel nucleo della nostra Galassia, la Via Lattea, situato a "soli" 26 MILA anni luce dal Sistema Solare?

Diciamolo pure: tutti si aspettavano che la prima immagine di EHT sarebbe stata quella relativa a Sgr A* e la sorpresa è stata grande nel momento in cui, nel filmato tenuto alla conferenza di presentazione da parte degli astronomi è iniziato zoomando nell'ammasso della Vergine anziché il centro galattico in direzione del Sagittario!

Sicuramente, come riportato dai manager del progetto, vi è in primis la difficoltà nell'osservare un oggetto pur vicino, come Sgr A*, che però è immerso in un ambiente molto caotico, ricco di polveri che portano l'immagine a subire assorbimenti e deflessioni di una certa entità; ma il motivo principale nella scelta di M87 risiede nella sua unicità che cade, essenzialmente, oltre che per le dimensioni, che erano già sospettate essere ben più grandi di quelle di Sgr A*, nell'attività del suo getto.

Si tratta di una struttura immensa, già rilevabile nell'ottico, che si prolunga in rettilineo dal nucleo per oltre 3.000 anni luce e continuare ancora della medesima quantità in andamento sinuoso, evidenziando alcune condensazioni.

Osservato nella banda radio, tale getto si estende fino a quasi 9.000 anni luce, divenendo instabile ed espandendosi a causa delle interazioni con il mezzo intergalattico; ciò, assieme al fatto di essere anche una sorgente radio (pur non molto potente se comparata con la nostra Via Lattea), di possedere una enorme quantità di gas caldo che si estende fino a mezzo milione di anni luce, di essere una galassia dalle dimensioni gigantesche e, tutto sommato, una delle più vicine galassie attive, motiva la scelta (si badi: restiamo comunque in fremente attesa di quelli che saranno sicuramente gli strabilianti risultati che EHT, prima o poi, otterrà su Sgr A*!).

Immagine ai raggi C catturata dal satellite Chandra, che ha un campo visivo molto più ampio rispetto all'area inquadrata dai radiotelescopi di EHT. In questa, è possibile vedere la prima parte del getto di plasma lanciato dall'intenso campo gravitazionale e magnetico esistente attorno al buco nero di M87. La parte di getto visibile in questo dettaglio si estende per oltre 1.000 anni luce.

A seconda dell’angolazione di questi getti estremamente energetici e della presenza di sostanziali quantità di polveri galattiche attraversate, l’effetto è quello di una variabilità nella luce visibile e nello spettro, che porta la galassia attiva che ospita il buco nero ed il getto relativistico ad essere distinta in un campione di varietà (quasar, blazar, radiogalassie...).

A produrre eventi di portata del tutto inimmaginabile alla nostra mente umana devono esser per forza di cose meccanismi straordinari ed efficienti la cui causa va ricercata nell'immenso campo gravitazionale del buco nero supermassiccio (valutando le dimensioni apparenti dell'orizzonte degli eventi di M87, si è stimato che il buco nero che vi si annida dentro abbia una massa stimata in almeno 6,5 miliardi di volte il nostro Sole!) presente nell'ambiente attorno ad esso e su tutto ciò che vi transita all'interno; in M87 così come nel bestiario delle cosiddette galassie "attive".

Ebbene, gli effetti di quanto sopra descritto sono stati simulati ai supercomputer, ottenendo risultati che hanno dimostrato come le forze gravitazionali e magnetiche prodotte in buchi neri rotanti di due meccanismi combinati - quello di trascinamento e quello noto come meccanismo di Penrose - spiegherebbero proprio le proprietà osservate nei getti relativistici. 

Il concetto base è l’assunzione che il buco nero supermassiccio sia rotante (detto “di Kerr”; come per la maggior parte delle stelle, che ruotano sul proprio asse, ci si aspetta che anche la maggioranza dei buchi neri presenti in natura ruotino su loro stessi...): ebbene, la forza di gravità esercitata dalla sua incredibile massa andrebbe a distorcere il tessuto spaziotemporale circostante in un fenomeno noto come “effetto di trascinamento”. 

Poiché un buco nero rotante, se dotato anche di carica, è dotato di un campo magnetico spaventosamente elevato, secondo la teoria, all'uscita dai poli del buco nero, esso si arrotolerebbe andando a sollevarsi verso l'esterno mentre all'equatore andrebbe a collassare formando strutture tumultuose. 

Nell'ambiente così estremo e caldo quale è l’ergosfera del buco nero, una frazione considerevole di elettroni del materiale gassoso li presente viene letteralmente strappata dai rispettivi atomi dando luogo ad un particolare gas ionizzato che è un particolare stato della materia, ne liquido, ne solido ne aeriforme: il plasma. 

In tutto questo stravolgimento, particelle di materia presenti alla base dei getti polari vengono ad espulse all'esterno mentre altre, dal lato opposto, vanno ad essere inevitabilmente inghiottite nell'oscuro abisso dell’orizzonte degli eventi del buco nero.


Materia spiraleggiante nel getto relativistico di M87 

Monitorare la formazione di getti relativistici come quello di M87 e di altre galassie attive è tutt'altro che facile, a causa dell’ambiente sottoposto ad estrema gravità in cui si generano i getti; i buchi neri, piegando lo spazio-tempo, generano potenti campi magnetici. Non solo: stando alla teoria, in ambienti così estremi verrebbero a crearsi singolari coppie formate da elettroni ed antielettroni (la loro controparte costituita da antimateria) le quali, avendo una carica elettrica, vengono quindi trascinate dagli intensi e distorti campi magnetici. 

Al fine di comprendere la causa dei getti di un buco nero, le simulazioni usate fino a poco tempo fa utilizzavano modelli semplificati del plasma presente in tali ambienti; di recente, i fisici K.Parfrey, A.Philippov e B.Cerutti, utilizzando i supercomputer NASA dell’Ames Research Center a Mountain View in California, hanno invece utilizzato nuovi algoritmi per simulazioni che forniscono il primo modello di un plasma “senza collisioni” dove le singole particelle del plasma non si urtano frequentemente tra loro al punto da essere rappresentate in un modello non uniforme e tutt'altro che semplicistico in presenza di un forte campo gravitazionale quale quello dei buchi neri supermassicci. 


La simulazione mostra le intricate dinamiche cinetiche del materiale presente nell'ergosfera del buco nero e sottoposto a correnti, dando vita ai getti osservati

Le simulazioni hanno prodotto, separatamente, due effetti già noti: il cosiddetto meccanismo di Blandford-Znajek, che descrive l’attorcigliamento dei campi magnetici che formano poi i getti, e il cosiddetto processo di Penrose, che descrive invece cosa accade quando particelle di energia negativa vengono inghiottite dal buco nero.

Da un punto di vista geometrico, le linee del campo magnetico aggrovigliate vanno ad incontrarsi all'equatore laddove ne indeboliscono l’intensità rispetto a quella del campo elettrico; quest’ultimo, divenendo la forza più forte in gioco, accelera le particelle cariche lungo due percorsi obbligati: alcune, seguendo traiettorie curve, vengono spinte ai poli per poi essere scagliate dai jet l’infinito a velocità relativistiche; altre vengono accelerate dal lato opposto, cadendo nel buco nero. 

Dal momento in cui tali particelle vengono inghiottite dal buco nero, in termini fisici ciò ha la conseguenza del decremento del momento angolare del buco nero, con la diretta estrazione di energia all'esterno: processo che venne teorizzato dal fisico R.Penrose del quale ne prende il nome. 

Relativamente ai getti relativistici, le simulazioni condotte concordano con quanto teoricamente previsto: la parte di materia che riesce a sfuggire può avere un rapporto massa-energia molto maggiore rispetto a quello della parte di materia in caduta verso l’orizzonte degli eventi. 

Allo stesso tempo, dimostrano come l'80% dell’energia prodotta in tali ambienti provenga dal campo magnetico ai poli mentre il restante 20% dalle particelle accelerate all'equatore delle ergosfere dei buchi neri. 

Le ricerche sono ora indirizzate a comprendere come le coppie elettrone-positrone appaiono nell’ergosfera dei buchi neri e, addirittura, a creare modelli che spieghino cosa accade alla materia che oltrepassa l'orizzonte degli eventi.

martedì 9 aprile 2019

L'ORIZZONTE DEGLI EVENTI DI SGR A

Mancano ormai meno di 24 ore all'attesa release della prima, storica immagine reale (non costruita al computer!) dell’orizzonte degli eventi di Sgr A - leggesi Sagittarius A) - il buco nero supermassiccio che governa la nostra galassia; la strana sigla denota una sorgente di onde radio molto compatta e luminosa localizzata all'esatto centro della nostra galassia.

Dall'epoca della scoperta, avvenuta a metà degli anni ’70 dello scorso secolo, numerose sono state le osservazioni compiute su questo straordinario oggetto e sul materiale ad esso circostante: gas caldo e stelle che orbitano attorno al buco nero a velocità davvero incredibili.

Come ogni buco nero presente in ogni galassia di un certo rango, anche Sgr A è estremamente massiccio e denso: secondo le stime, la sua massa oltrepasserebbe di ben 4 milioni di volte quella del Sole; il raggio del suo orizzonte degli eventi sarebbe, invece, di poco inferiore a quello dell’orbita di Mercurio!

L'ambiente galattico nei pressi di Sgr A ripreso nei raggi X dal telescopio spaziale Chandra: questo è intriso di gas caldo e stelle, alcune delle quali si ritiene che siano esse stesse buchi neri di taglia minore. Le ellissi individuano cosiddette eco di luce, prodotti a seguito di improvvisi flare (generati quasi sicuramente da ciò che accade nei pressi del buco nero) riflessi dalla materia interstellare
Lontano 26.000 dal Sistema Solare, Sgr A è tutt'altro che facile da osservare, annidato com'è in una regione dove polveri e gas si muovono in modo tumultuoso. 

Stando così le cose e tenendo presente che l'orizzonte degli eventi dovrebbe estendersi su un'area larga più o meno 30 microsecondi d'arco, come è quindi possibile ottenerne un'immagine che possa essere, ad oggi, definita "unica"?

Impossibilitato, per ovvie ragioni, a riprendere direttamente il buco nero, il progetto EHT (Event Horizon Telescope) è stato ideato infatti per osservarne quindi l’orizzonte degli eventi: quella sfera entro la quale giace il buco nero e che fa da linea di confine bloccando, di fatto, tutte le informazioni in uscita tra cui anche la luce.

In aggiunta a questo, immaginiamo di poter scorgere nettamente un DVD posto sulla superficie della Luna: l’esatto paragone di come dovrebbe apparire l’orizzonte degli eventi Sgr A nelle immagini riprese da EHT! 

Sino ad ora, le migliori immagini dell’ambiente circostante Sgr A sono quelle ottenute nelle onde radio sub-millimetriche tramite interferometria a base molto ampia (VLBI), sfruttata per l'imaging di sorgenti cosmiche anche molto lontane.

Da quanto emerso, le emissioni radio di Sgr A non sembrerebbero essere centrate sul buco nero ma deriverebbero da un punto luminoso, molto vicino al suo all'orizzonte degli eventi (che, lo ricordiamo, non coincide necessariamente con la superficie del buco nero; ricordiamo qui che il diametro di questo dovrebbe essere di circa 13 milioni di chilometri), che sarebbe nel disco di accrescimento.

C’è chi sostiene che la fonte radio possa in realtà essere un getto relativistico di materiale espulso dal disco stesso visto esattamente di fronte; rivolto, quindi, proprio in direzione del Sistema Solare. 

Proiettandosi sulla costellazione del Sagittario, l’oscuro re della Galassia si rende meglio visibile dall'emisfero australe terrestre; ragione per la quale è stato utilizzato il nuovo e potente radiotelescopio ALMA, situato in Cile, e il South Pole Telescope, quest’ultimo esattamente in Antartide al polo sud. A tale rete, uniti altri 12 radiotelescopi situati in Europa e Nord America.

La rete interferometrica di radiotelescopi impiegati nel progetto EHT per l'osservazione diretta dell'orizzonte degli eventi di Sgr A

La tecnica interferometrica così utilizzata ha permesso di raggiungere una risoluzione più che doppia rispetto alle precedenti osservazioni, producendo un’immagine di Sgr A - quella che domani potremo finalmente vedere! - con una risoluzione compresa tra 10 e 20 microsecondi d’arco e completamente priva dello sfocamento dovuto alla cosiddetta dispersione di segnale, causata da irregolarità nella densità nel mezzo interstellare ionizzato - giacente lungo la linea di vista tra Sgr A e la Terra - e che va ad influire abbassandone il grado di risoluzione delle immagini radio.

Osservando attraverso il plasma si può quindi riuscire a penetrare a profondità sempre maggiori nel tumultuoso gas rovente che si trova al di sopra del'orizzonte degli eventi di Sgr A; d'accordo, ma come? Semplicemente, aggiustando la frequenza dei radiotelescopi, spostandola su frequenze sempre più piccole.

La maggior parte della luce che fuoriesce da questa caotica regione è prodotta da un processo non dissimile a quello associato alle aurore boreali. Esattamente come il flusso solare di particelle cariche che si avvicina al campo magnetico terrestre, il gas in caduta in avvicinamento al buco nero subisce stiramenti e compressioni tali che le linee del campo magnetico presente nel plasma incandescente vengono tese, obbligando ancora più le particelle ad urtarsi, producendo così il segnale radio che rappresenta, in definitiva, il segnale lanciato da questo plasma in fase di annientamento, in un ultimo e disperato tentativo di renderci partecipi della sua esistenza, giunta ormai al termine.

Osservando quindi Sgr A a frequenze sempre più piccole, sintonizzando i radiotelescopi da frequenze millimetriche a quelle sub-millimetriche, ecco che il mezzo circostante l'orizzonte degli eventi inizia ad essere sempre più trasparente e rilevante.

Quando la trasparenza arriva al punto tale da permettere di penetrare attraverso tutto il plasma, ciò che si percepisce è la radiazione emessa dal gas che si trova proprio sull'orlo del salto finale: in altre parole, siamo giunti al punto da poter vedere proprio l'orizzonte degli eventi del buco nero o, se vogliamo, l'ombra del buco nero al centro della Galassia!

Al fine di rimuovere la dispersione del segnale e raggiungere, così, la massima risoluzione consentita ad EHT è stata utilizzata una nuova tecnica, sviluppata dall'astronomo M.Johnson (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics) che sfrutta il fenomeno della polarizzazione delle onde radio, indotta dal gas caldo ionizzato (plasma) in orbita attorno al buco nero: la radiazione polarizzata di questo tende a vibrare avanti e indietro nella stessa direzione imposta dal campo magnetico ad esso sottostante.


Simulazione polarimetrica di Sgr A (Image credit: Bromley, Melia & Liu)

La radiazione polarizzata può essere osservata con una certa facilità facendo uso di filtri che ne rivelino la direzione di oscillazione: ecco quindi che, a frequenze sempre più piccole (sub-millimetriche), l'effetto di sfocatura indotto dal mezzo interstellare inizia a divenire sempre meno rilevante, permettendo di vedere l'orizzonte degli eventi (che apparirà come un'ombra oscura) e il gas e il gas orbitante con maggiore chiarezza rispetto a frequenze maggiori (millimetriche).

Attendiamo quindi di vedere la tanto attesa immagine di questo evento che darà certamente una svolta decisiva nella conferma della relatività generale in ambienti dall'intenso campo gravitazionale.

lunedì 8 aprile 2019

LA PRIMA IMMAGINE STORICA DI UN BUCO NERO

Mancano ormai due giorni all'imminente release, da parte del team del progetto EHT (Event Horizon Telescope), sulla prima immagine diretta dell'orizzonte degli eventi circostante il buco nero supermassiccio che giace quiescente al centro della nostra galassia: un “mostro” dalla massa 4 milioni quella del Sole e lontano 26 mila anni luce dal Sistema Solare! 

Anche se tutti i media, scientifici e non, puntano ora gli occhi all'atteso risultato ottenuto tramite otto potenti radiotelescopi disposti su tutto il globo (quali South Pole Telescope, ALMA e J.C.Maxwell) tramite i quali è stata raccolta un'immensa raccolta dati (ben 10 Petabyte, salvati su più di 1.000 hard disk!) durata più di due anni, a ragion di cronaca è bene riportare che la prima immagine “dettagliata” di un buco nero venne prodotta ben 40 anni fa; cosa che pochi conoscono e che qui andiamo a raccontare, come d'abitudine per questo blog dedicato all'Astronomia meno nota. 

I buchi neri si ritiene si formino alla fine della vita di stelle di grande massa: più precisamente, sarebbero il risultato del collasso del loro stesso nucleo. I buchi neri così formati dovrebbero solitamente possedere dimensioni pari a qualche decina di chilometri e masse pari ad alcune masse solari; discorso diverso per i “supermassicci”, nati probabilmente a seguito di fusioni di più buchi neri o dal continuo fagocitare di stelle e quant'altro vicino da parte di uno di questi. 

Tali oggetti vengono definiti “neri” in quanto neanche la stessa luce, pur viaggiando alla straordinaria velocità di quasi 300 mila chilometri al secondo, riesce a sfuggire alla loro potentissima attrazione gravitazionale, portando tali oggetti a divenire del tutto invisibili! 

Tuttavia, la loro presenza può essere denunciata dall'azione del loro campo gravitazionale sulla materia circostante - come gas strappato “con forza” ad una stella compagna - che, attratta e cadendoci sopra, va quindi a disporsi in una sorta di “disco di accrescimento” attorno al buco nero; questo e la radiazione X da esso prodotta a seguito del riscaldamento del materiale gassoso all'impatto col disco possono essere considerati a tutti gli effetti come la manifestazione indiretta della presenza del buco nero. 

Oltre questo, la caratteristica distintiva di un buco nero è il cosiddetto orizzonte degli eventi ovvero quel raggio oltre il quale qualunque cosa venga catturata dal buco nero non può più sfuggirgli. 

Il realistico orizzonte degli eventi attorno a Gargantua - il buco nero del film “Interstellar” (prodotto con la consulenza del fisico e premio nobel K.Thorne, che i buchi neri li conosce bene) - è composto da due dischi luminosi ortogonali tra loro; in realtà, attorno a quel buco nero, così come a tanti altri esistenti nell'Universo, c'è un solo disco di accrescimento, solitamente disposto all'equatore del “mostro”: ma l'estremo campo gravitazione piega la luce inducendo l'effetto noto come “lente gravitazionale”: i due archi luminosi di Gargantua sono, quindi, una mera illusione! 

Se un buco nero non è direttamente osservabile, la computer-grafica riesce a fornire modelli realistici sulla loro apparenza; e la prima storica immagine di un buco nero, quella ottenuta dall'astronomo francese J.P.Luminet nel 1979, è però ancor più realistica di quella mostrata nel film Interstellar (differenza sulla quale Thorne era perfettamente consapevole; tuttavia, il regista del film, C.Nolan, tralasciò tali particolari per non confondere il pubblico).


La storica foto - virtuale ma altamente realistica - di J.P.Luminet di un buco nero del disco di accrescimento disposto attorno ad un buco nero di taglia stellare: il "mostro" rimane invisibile in quanto celato entro l'orizzonte degli eventi mentre si rende visibile l'asimmetria luminosa del disco di accrescimento, che ruota da sinistra verso destra, dovuta alla concomitanza degli effetti di redshift gravitazionale e Doppler
In cosa differiva, quindi, l'immagine di Luminet rispetto a quella del film al punto da renderla più verosimile alla realtà?

Specifichiamo, innanzitutto, che lo scienziato francese non si recò certo “in loco” a bordo di ipotetiche astronavi aliene; più semplicemente, ricorse all'ausilio di IBM7040, un computer a transistor con ingressi a schede perforate, potentissimo per l'epoca. 

Con tale macchina, Luminet costruì un programma per calcolare tutte le possibili traiettorie luminose dei raggi luminosi provenienti dal disco di accrescimento in orbita al buco nero; sull'immagine così prodotta e quindi convertita in negativo, Luminet, che era anche un ottimo disegnatore, provvide ad enfatizzare con inchiostro indiano i punti più densi: in altre parole, dando risalto a quelle aree dove la simulazione prodotta mostrava “più luce”. 

Il risultato finale fu di notevole interesse: per la prima volta in assoluto, si rendeva palese come l'azione dell'intenso campo gravitazionale di un buco nero - nell'occasione, di taglia stellare - modifica la traiettoria, la frequenza e l'intensità dei raggi luminosi; ciò che si evidenziava era qualcosa di ben diverso da come potevano apparire, ad esempio, i ben noti anelli di Saturno che hanno simile a quella di un disco di accrescimento.
Il buco nero Gargantua come ideato da Nolan per Interstellar 
Per comprendere l'immagine di Luminet, è necessario prendere in considerazione tre importanti effetti indotti dal buco nero: la deflessione gravitazionale dei raggi luminosi del disco di accrescimento, il redshift gravitazionale e l'effetto Doppler. 

Stando alla teoria della relatività generale, i raggi luminosi vengono deflessi dal loro cammino rettilineo al passaggio attraverso un campo gravitazionale; quanto più intenso è tale campo, tanto maggiore è la deflessione subita. 

Ebbene, a causa del fenomeno, la radiazione prodotta dalla faccia superiore del disco subisce una forte deflessione, dando origine ad una immagine primaria molto distorta; nell'immagine virtuale prodotta da Luminet, pur l'osservatore trovandosi al di sopra del piano del disco di accrescimento, egli riesce tuttavia a vedere, pur minimamente, anche la parte inferiore del disco a causa della notevole deflessione! 

Altra notevole caratteristica è e questo spiega la forte diminuzione di intensità luminosa osservata, dovuta alla concomitanza degli effetti di redshift gravitazionale e Doppler. Il primo induce la frequenza della radiazione emessa dalle parti del disco più vicine al buco nero - laddove dove il campo gravitazionale è più intenso - a subire uno spostamento vero frequenze più basse ed una diminuzione dell'intensità luminosa. 

A questo si sovrappone l'effetto Doppler, dovuto alla velocità di rotazione del gas del disco, che ruota attorno al buco nero da sinistra verso destra: la radiazione generata da quella parte del disco di accrescimento che, a causa della rotazione, si avvicina all'osservatore ha di conseguenza frequenza ed intensità aumentate; il contrario avviene, invece, per la parte del disco che si allontana dall'osservatore. 

Questi due effetti, redshift gravitazionale e Doppler, agiscono combinatamente per la radiazione prodotta nella parte del disco di accrescimento che si allontana: cosa che spiega l'osservata diminuzione di luminosità; al contrario, i due effetti si annullano per l'altra metà del disco, portando l'immagine a mantenere l'intensità luminosa osservata. 

Negli anni seguenti, la computer grafica ha portato a migliorare i modelli rappresentativi di ciò che i buchi neri sono in grado di mostrare di quanto più vicino ad essi ovvero gli effetti sul loro disco di accrescimento; adesso, tra soli due giorni, la comunità scientifica avrà finalmente il piacere di riscontrare nella realtà il modello proposto 40 anni fa da quella prima, straordinaria simulazione. 

Apparirà davvero così Sagittarius A ripreso da EHT? Io scommetto che non sarà tanto dissimile!

sabato 6 aprile 2019

MISTERI E PROVE SULL 'ESISTENZA DELLE NUBI DI KORDYLEWSKI

Forse non tutti sanno che la Luna…non è l’unico satellite naturale della Terra!

I più appassionati di letture celesti ricorderanno sicuramente le cosiddette nubi di Kordylewski, descritte dall'astronomo P.Maffei nell'avvincente “I mostri del cielo”, edito nel 1976. Di cosa si tratta?

In un’epoca in cui la ricerca di nuovi corpi nel Sistema Solare forniva frequentemente nuove scoperte effettuate con i più grandi telescopi del tempo, quella a cavallo tra i due scorsi secoli e nel primo periodo del XX, venne speculata la possibile esistenza di altri satelliti naturali in orbita attorno al nostro pianeta oltre alla ben nota e cara Luna. Dal momento in cui, nel corso della storia, non vi erano state segnalazioni di alcun tipo su oggetti che, peraltro, sarebbero dovuti essere molto vicini alla Terra, se qualcosa c’era allora doveva essere veramente sfuggente. D’accordo, elusive: ma quanto? E, soprattutto, situate dove?

Negli anni ’50 del secolo scorso, fu l’astronomo polacco K.Kordylewski ad interessarsi a tale questione, ipotizzando che l’esistenza non di un unico corpo, anche di piccole dimensioni, ma di vere e proprie nubi di polveri in orbita attorno al nostro pianeta: presenza che sarebbe stata possibile solo in due determinate posizioni di equilibrio gravitazionale esistenti tra la Terra e la Luna, situate sull'orbita 60° avanti e 60° dietro l'orbita selenica.


Parliamo dei cosiddetti “punti lagrangiani L4 - L5”, descritti dal matematico ed astronomo torinese J.L.Lagrange nel XVIII secolo; si tratta, in realtà, di due di ben cinque punti di equilibrio gravitazionale presenti in un sistema di due corpi (come, ad esempio, il sistema Sole-Terra o, per l’appunto, il sistema Terra-Luna...o tanti altri ancora, composti non necessariamente da pianeti e satelliti ma anche da stelle), all'interno dei quali non solo particelle e detriti interplanetari ma anche corpi di stazza ben maggiore potrebbero restare tranquillamente confinati a lungo tempo. 

La prova storica che dimostrò la valenza delle idee puramente matematiche di Lagrange venne dalla scoperta, effettuata nei primi anni dello scorso secolo, dei cosiddetti satelliti troiani di Giove, distribuiti in due regioni (oblunghe a seguito delle continue librazioni, per circa 26°) attorno ai punti lagrangiani L4 ed L5 nel sistema gravitazionale Sole-Giove, sull'orbita del pianeta gigante.

Gli asteroidi troiani, centrati sui punti L4 ed L5, lungo l'orbita di Giove; in giallo, le nubi di Kordylewski disposte parimenti lungo l'orbita lunare
Partendo da questo presupposto, nel 1961 Kordylewski intraprese una ricerca atta a provare la sua ipotesi. Ebbene, l'astronomo polacco riportò di aver osservato personalmente le due fantomatiche nubi ad occhio nudo nelle posizioni previste (ovvero 60° avanti e dietro alla Luna), osservazione che venne effettuata in una località sui monti Tatra. Sorge però, spontanea, una domanda: è davvero possibile riuscire a scorgere queste evanescenti aree sulla sfondo del cielo in presenza della Luna, dato che la Luna non si discosta mai più di tanto da queste? Vale la pena di ricordare che la luminosità di tali nubi dovrebbe essere ben più debole di quella della già-più-che-evanescente luce anti-eliale (nota anche come Gegenschein, causata dalla riflessione della luce solare da parte delle particelle di polvere presenti sull'eclittica)! 

Non solo: a quanto pare, Kordylewski sembra fosse riuscito anche a riprenderle fotograficamente! Tuttavia, mancando in letteratura le tali foto riprese dall'astronomo, l’esistenza di tali fantomatici satelliti è stata sempre messa in dubbio e di conseguenza ampiamente trascurata dalla comunità scientifica. 

Nel 1966, astronomi a bordo di un aereo NASA riferirono di aver visto due chiazze sbiadite in entrambi i punti L4 e L5. Allo stesso modo, nel 1975, l'Orbiting Solar Observatory annunciò di aver ripreso le nubi di Kordylewski. Successivamente vi sono state altre (poche, in realtà) campagne osservative a terra condotte da alcuni astronomi ma con risultati del tutto negativi. Addirittura, nel 2009 una sonda spaziale giapponese (Hiten) passò attraverso una delle due aree incriminate, tuttavia senza individuare particelle che fossero più grandi o più dense della norma. 

In definitiva, sin dalla loro scoperta originale di Kordylewski negli anni '60, le poche segnalazioni sull'esistenza delle due nubi - in aggiunta alla mancanza di reali immagini delle stesse! - hanno portato la loro esistenza a non essere ampiamente accettata. Un bel mistero, perdurato per anni; fino a che, di recente, un recente studio condotto da ricercatori ungheresi sembra aver finalmente fatto luce su tali "fantasmi del Sistema Solare" (op. cit). 

In primis, simulazioni effettuate con super-calcolatori mostrano come tali nubi siano composte da particelle vorticose, tutt'altro che stabili in forma, luminosità e densità: evoluzione indotta dall'arrivo occasionale di altre particelle giacenti sul piano dell'eclittica. 

Ma dopo la simulazione, occorreva la prova fotografica. Poiché queste nubi sono illuminate dalla luce solare, la debole luce diffusa da tali particelle di polvere potrebbe essere osservata e fotografata dalla superficie terrestre con rilevatori sensibili a superfici diffuse. 

A tal fine, alcuni ricercatori dell'Università Eötvös Loránd di Budapest, dopo mesi di perseveranza nel fotografare il cielo con opportuni filtri in grado di rilevare luce polarizzata da eventuali grani di polvere, hanno finalmente fatto bingo: in notti sufficientemente serene e senza Luna (tutt'altro che frequenti!), i telescopi hanno catturato un’immagine dove, proprio nella posizione L5, sono presenti pixel più scuri: esattamente quanto ci si aspettava da polveri dense! 

Dettaglio dei pixel caldi rilevati dal team ungherese sulla volta celeste dove si proietta il punto L5
Al momento, le prove fotografiche condotte su L4 non hanno rilevato nulla, indicando che l’esistenza di materiale in questa posizione debba essere considerata, al momento, ipotetica.

Possiamo oggi affermare che, 60 anni fa, Kordylewski ebbe ragione a ricercare qualcosa oggi ancora elusivo: L4 ed L5 sarebbero infatti location ottimali sia per future colonie spaziali umane che per future generazioni di telescopi di ampio diametro.